Cronache da una Milano militarizzata sullo sciopero del 22 settembre
“…Milano, la più “educata e civile” città d’Italia, in preda alla guerriglia urbana: le vetrine rotte, le scritte… oddio, l’orrore! Che la polizia e i militari facciano qualcosa, presto…!”
Basta davvero con questa retorica!
I media allineati con il governo omettono sistematicamente di raccontare quali e
quante siano le forme di violenza istituzionalizzata che ormai rendono
difficilissimo vivere in una Milano militarizzata: telecamere e zone di divieto
a ogni passo; zone rosse; sorveglianza digitale con videocamere e badge rivolta
agli studenti nelle scuole pubbliche; affitti vertiginosi; prezzi impossibili
dei trasporti; demolizione e assenza di spazi sociali; martellamento di
promozioni di attività preconfezionate e di prodotti inutili; ronde e presidi di
poliziotti dal centro alla periferia.
I cortei in solidarietà con la Palestina sono scortati dalle solite
camionette delle forze dell’ordine e nelle occasioni in cui si prevede maggior
afflusso, sono accompagnati da infiltrati riconoscibili già dai primi
spostamenti, che concertano, sin dai primi passi, un “balletto” con i poliziotti
in borghese di cui lo sguardo poco esperto alle piazze non s’avvede. Quanto
avvenuto in Stazione Centrale il 22 settembre e in altri episodi che hanno dato
vita a degli scontri durante le manifestazioni per la Palestina a Milano nei
mesi scorsi poteva essere gestito diversamente. Da una parte gli organizzatori
delle manifestazioni dovrebbero iniziare a organizzare dei servizi d’ordine
interni capaci di tutelare i manifestanti; dall’altra i vari corpi in divisa
addetti alla sicurezza urbana (e provvisti di armi!) invece di inasprire il
conflitto, galoppando il momento di frizione suscitato da azioni di gruppi
giovanili più esuberanti per scatenarsi poi in offensive repressive e innalzare
il livello di tensione, potevano predisporre strategie diverse.
Dopo le indagini, verranno pubblicate le versioni delle forze dell’ordine sugli
accaduti; nel frattempo, come da copione ormai conosciuto, si potrà scrivere di
tutto contro gli scioperi, i cortei, i giovani, i “sinistri”… e un po’ di lavoro
per fiaccare il neo-movimento e gettare ombra sulla massiccia partecipazione
sarà comunque stato fatto.
Il fatto che i feriti e i fermati siano quasi tutti ragazzi minorenni e
giovanissimi affossa totalmente la retorica di chi addita questi scontri come
piani intenzionali preparati da chissà quali organizzazioni sovversive. Eppure,
molti/e nel corteo sarebbero stati felici di una buona riuscita di un blocco
proprio per dire “bloccare tutto è possibile quando siamo uniti”. Simpatie,
applausi, suoni di clacson sono pervenuti anche da chi non faceva parte del
corteo: dalle auto bloccate e da coloro che dalle finestre di uffici e scuole
si sono comunque affacciati.
Tuttavia, consideriamo anche la carica di rabbia e frustrazione che ha
serpeggiato nel super partecipato corteo milanese e, lungi dal demonizzare tale
carica, senza la quale lo sdegno e l’azione di scendere in piazza non sarebbero
stati possibili, ribadiamo che una città meno plastificata e meno artificiosa,
ma più umana e accogliente, sicuramente renderebbe le sacche represse di
malcontento sociale meno “infiammabili”.
Rammentiamo anche che la parola d’ordine dello sciopero (che per sua natura è
una protesta e non una festa o una passerella) è stata “blocchiamo tutto” per
mandare al governo italiano, complice del genocidio, un messaggio chiaro e
inequivocabile: stop all’invio di armi in Palestina, aprire corridoi umanitari,
sicurezza alle barche della Flotilla e “NO alla corsa al riarmo”. Naturalmente,
a questo messaggio principe, scandito a piena voce in corteo, moltissimi altri
ne sono stati aggiunti da gruppi politici, collettivi di quartiere, categorie di
lavoratori/trici, singoli individui, attivisti/e che vivono sulla propria pelle
fatiche economiche e ingiustizie sociali evidentissime in una città come Milano,
nonostante gli sforzi per nasconderle della nota ipocrisia perbenista del nord.
I tantissimi messaggi di protesta e denuncia evidenziano quanto lo stato
avanzato di corruzione, la censura mediatica, l’utilizzo della narrativa
doppiopesista e manipolatoria insita nelle narrazioni dominanti, gli avvenuti
accordi per la corsa al riarmo e la propaganda della cultura della difesa siano
disprezzate dalle persone che si sono riversate in piazza.
Resta un fatto indiscutibile che immaginiamo e speriamo faccia tremare le alte
cariche delle nostre istituzioni governative e le obblighi a considerare le
rivendicazioni delle classi popolari: il mondo della scuola che sembrava
dormiente si è mosso; le famiglie si sono mosse; i giovanissimi si sono mossi;
i/le lavoratori/trici del pubblico e del privato hanno risposto a un appello che
USB e i CALP (portuali) e gli altri sindacati di base insieme hanno lanciato a
salvaguardia della Flotilla e in solidarietà con il popolo palestinese e per un
mondo senza sfruttamento. In barba alla mobilitazione promossa tre giorni prima
dalla CGIL, al silenzio ormai prolungato degli altri due sindacati confederali,
e alle previsioni di Salvini, i numeri dei partecipanti sono stati elevatissimi.
Ci auguriamo che la rabbia, lo sdegno, l’impotenza dei milioni di italiani/e
scesi/e in piazza in tutto il Paese, insieme alla necessità, all’urgenza e al
sentimento di solidarietà, si trasformino in organizzazioni e lotte capaci di
rinegoziare in maniera decisa con il governo le questioni della giustizia
sociale, del welfare, del lavoro, della politica interna ed estera.
In quanto lavoratori e lavoratrici del mondo scuola ci auguriamo che un sempre
maggior numero di confronti, spazi d’analisi, discussioni e progettualità
possano trovar spazio nelle aule delle scuole medie, superiore e universitarie
per contribuite insieme agli studenti e alle studentesse a decifrare la
complessità attuale cui siamo immersi, immaginare nuove linee d’azione
e costruire una prospettiva politica sentita e partecipata.
Riteniamo che mentre il mondo brucia, il popolo gazawi viene trucidato, il
sistema dell’arricchimento del capitale distrugge il pianeta e ci vorrebbe
tutti/e isolati/e nelle proprie solitudini, tuttavia la nostra attenzione e le
nostre energie debbano andare a sostegno dei movimenti popolari che in qualche
modo tornano oggi a riconoscersi tra loro e che cercano una base comune
di linguaggio ed alfabeto politico per segnare dei cambiamenti.
Moltissimi/e sono stati/e le/gli insegnanti, le/gli educatori/trici, gli
studenti e le studentesse che mi hanno avvicinata per ottenere informazioni sul
lavoro dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle
università e che, ignari di quanto i protocolli d’intesa siglati negli ultimi
anni tra il Ministero della Difesa e quello dell’Istruzione e del Merito stiano
determinando il clima del mondo dell’istruzione, si sono “spiacevolmente”
sorpresi di quanto noi denunciamo da tempo col nostro lavoro ed incuriositi.
Elena Abate, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle
università, Lombardia