Filippo Tuena / La memoria sul palcoscenico
I greci, come al solito, avevano le idee abbastanza chiare: gli artisti vengono
ispirati dalle muse, nove in tutto come le arti che si praticavano all’epoca. Se
eri un astronomo (all’epoca considerato artista), ti aiutava Urania, che poi
fece carriera molto più tardi in tutt’altro ambito, tra alieni astronavi e
androidi. Se invece danzavi, eri sponsorizzato da Tersicore. Ma la madre di
tutte e nove le muse era, guarda un po’, Mnemosyne, la dea della memoria.
Insomma, già ai tempi di Sofocle si sapeva bene che nelle arti, inclusa la
letteratura, nulla si creava se non si ricordava.
Non è dunque un caso se uno dei più interessanti scrittori italiani, uno di
quelli che difficilmente vedremo a tracannare Strega, intesse da anni un
discorso sulla storia (la figlia della memoria che più somiglia alla madre,
restando alla mitologica personificazione greca), sui fantasmi (che in quanto
revenants, come dicono i francesi, ritornano né più né meno come ricordi), e
sull’atto stesso della rimemorazione. Parlo di Filippo Tuena, che in questo
breve volumetto ci porta subito “all’interno di un immenso teatro a ferro di
cavallo”, col palcoscenico ingombro di “oggetti alla rinfusa”, forse in
preparazione di uno spettacolo, forse materiali da usare per il restauro
dell’edificio, che non è messo molto bene, tra dorature screpolate e tappezzerie
lacere.
L’idea del teatro della memoria è di Giulio Camillo Delminio, umanista vissuto
tra Quattro e Cinquecento, che avrebbe dovuto realizzare un edificio mnemonico,
dove chi si fosse piazzato al centro del palcoscenico avrebbe avuto intorno una
serie di immagini simboliche legate alle varie branche del sapere, interconnesse
tra loro in modo da poter recuperare agevolmente tutto lo scibile umano.
Praticamente, la Wikipedia analogica rinascimentale (ed esoterica). Delminio
ricevette anche un finanziamento da re Francesco I di Francia per realizzare il
suo teatro, e ancora si dibatte se ci sia riuscito o meno.
Il teatro della memoria di Tuena è più modesto: si accontenta di evocare i
ricordi della madre dello scrittore. Abbiamo quindi quella che i teorici della
letteratura più aggiornati chiamerebbero post-memory (post-memoria per i
puristi), ovvero il ricordo di avvenimenti vissuti da altri (spesso i genitori,
o altri parenti stretti) e trasmessi tramite il racconto, con tutti i rischi di
rielaborazione, autocensura, dimenticanza ecc. che ciò comporta. Esempio
classico di post-memoria è il memoriale grafico Maus, di Art Spiegelman, nel
quale il fumettista americano recupera i ricordi del padre ex-detenuto ad
Auschwitz (Mauschwitz nel memoriale) mediante una serie di interviste
registrate.
Nel suo piccolo, anche Valzer con mia madre da ragazza è un atto di
post-memoria, attraverso il quale Tuena recupera frammenti dell’infanzia della
genitrice, e della propria, e così facendo recupera la terra d’origine della
famiglia materna, quell’Istria che oggi sta in Croazia. E così inevitabilmente –
come spesso accade nello scrittore romano emigrato a Milano – la storia
personale s’intreccia con quella collettiva (così è per esempio, a leggere tra
le righe, in Tutti i sognatori), le compagne di classe ebree nel liceo di Fiume
alludono a tutta la complicata tragedia della frontiera orientale, e all’altra,
ben più ampia, della Shoah.
Tuena, onestamente, non cerca di ricomporre il tutto in forma romanzesca,
riempiendo i buchi; anche nelle sue opere maggiori, l’atto del ricordo, anche in
forma post-memoriale, non nasconde le falle, i vuoti documentali, le amnesie, i
buchi neri (basti leggere Le variazioni Reinach per rendersene conto). E questo
rientra completamente nella definizione della post-memory come originariamente
formulata da Marianne Hirsch, perché anche gli squarci nell’arazzo tessuto della
memoria devono restare lì, a ricordarci che non è possibile rammentare tutto, e
che certe volte di intere storie restano poche righe e talvolta una sola foto in
bianco e nero.
Insomma, questa piccola opera dell’autore di Ultimo parallelo e La voce della
sibilla getta luce su tutta la sua produzione, e induce a sospettare che dietro
ogni atto di memoria ci sia inevitabilmente una perdita, qualcosa o qualcuno o
qualche luogo che non si può più raggiungere, inghiottito dal vortice
inarrestabile del tempo.
(Colgo l’occasione per esortare qualche editore di buona volontà a tradurre The
Generation of Postmemory: Writing and Visual Culture After the Holocaust di
Marianne Hirsch, ancora riservato a quei lettori italiani che non hanno problemi
con l’inglese. Ma si sa, questo è il paese dall’amnesia facile, figurarsi se
interessa un ragionamento sui meccanismi della memoria).
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