Gabriele Cavallini / La pelle è ovunque
Gabriele Cavallini – classe 1995, nato a San Miniato in provincia di Pisa – ha
lavorato nel comparto conciario prima di dedicarsi alla scrittura e ambienta il
suo primo romanzo in Toscana, dove esiste un vero e proprio “Comprensorio del
cuoio”. L’area è così chiamata per l’altissima concentrazione di aziende
conciarie che ne caratterizzano il tessuto economico; la quasi totalità della
produzione italiana di cuoio da suola proviene da questa zona. È proprio qui che
vivono e lavorano i protagonisti di questa storia che ruota attorno all’io
narrante Michelangelo Cavalcanti; l’uomo è un tecnico della Conceria Fucci Vanni
dopo che la blasonata impresa di famiglia, la “Cavalcanti & Figli” fondata dal
nonno paterno, è miseramente fallita cambiando la vita di tutti: il padre di
Michelangelo ha lasciato il mondo del lavoro e, smarritosi in varie
fantasticherie, si interessa solo di botanica; il fratello minore Emanuele si è
chiuso in un ostinato mutismo ed esce a malapena dalla sua stanza trascorrendo
la giornata con in mano il cellulare; la madre è scomparsa da un giorno
all’altro e non si sa dove sia e mai nessuno, per un lungo periodo, ha pensato
di cercarla.
È un libro spietato questo di Cavallini e molto attuale dal momento che “Il Sole
24 ore” ha di recente presentato una collana “I grandi romanzi dell’industria
italiana” con cui si vuole raccontare e recuperare un pezzo della nostra storia
e della nostra identità e lo stesso intento mi pare potersi ravvisare in Cuoio.
L’autore, infatti, riserva grande spazio alla rappresentazione del sistema
industriale conciario italiano e al mondo del lavoro in generale con le sue
caratteristiche e, in particolare, con le sue violenze. Tanti gli argomenti
trattati, ma il cuore del romanzo si potrebbe ravvisare in una parabola
discendente del rapporto tra le tre generazioni dei Cavalcanti e la ditta di
famiglia. In chi ha fondato la conceria, traspare una sorta di ammirazione e
rispetto per la pelle e per la conciatura quale atto fondamentale di
sopravvivenza, uno fra i primi compiuto dall’uomo per proteggersi dal freddo e
dalla pioggia. Conciare è considerato un modo per valicare il confine stabilito
fra la vita e la morte, è una forma di conservazione della specie e il lavoro,
anche se duro, nobilita ancora la vita dell’uomo e dà soddisfazione: salvare
ogni pelle dalla naturale decomposizione è come giocare a fare Dio poiché la
concia, in qualche modo, ferma il tempo, lo scorrere degli anni e rende
persistente ed eterno qualcosa che per sua natura non lo è. «Una leggenda del
Comprensorio racconta che alla scomparsa di una famiglia conciaiola si
dissolvano le loro pelli. Perché per renderle immortali il vero conciaiolo
lascia un minuscolo frammento di anima in ogni pelle. Fin quando l’anima non
comincia a diventare instabile. Fin quando l’anima accartocciata del conciaiolo
non si disgrega. Solo allora è possibile vederli, quei minuscoli frammenti
chiusi nel cuore delle pelli, che fuggono e levitano con i resti dell’anima del
conciaiolo. Per l ‘amore di precipitare insieme giù all’inferno».
È la seconda generazione, quella del padre di Michelangelo, che non ride mai, a
subire negativamente il lavoro: un’attività che lo costringe a tornare a casa
tardi la sera senza avere la forza e la voglia di rivolgere la parola a nessuno,
a fare telefonate nel cuore della notte a clienti lontani, senza neanche pensare
di premurarsi di far piano, dimostrando così un totale disinteresse per la
famiglia. In particolare, il trascurare la moglie porterà la donna a scaricare
la sua insoddisfazione sui figli, i quali cresceranno in un ambiente anaffettivo
e convinti che l’unica cosa giusta da fare nella vita per diventare migliori sia
seguire il mestiere di famiglia. L’ultima generazione, quella di Michelangelo,
invece, si trova a convivere con il declino di quello che sembrava un impero
solidissimo. Ci si muove tra fabbricati che si assottigliano per numero e
grandezza, e con l’intonaco sbriciolato che mostra lo scheletro nudo, i ferri
arrugginiti del cemento armato e i tetti rotti e forati come se Dio in persona
dovesse guardarci dentro. Alcune costruzioni, tra cui la gloriosa conceria dei
Cavalcanti, sono messe così male che basterebbe un temporale a buttarle giù, ma
è proprio lì, dove non entra più nessuno, che vivono gli scarnatori e i
pressatori, manovalanza impegnata tutto il giorno in fabbrica tra il grasso, il
cromo, la melma del fango tossico ma che, nonostante questo, non guadagna
abbastanza da potersi permettere un tetto sopra la testa e vive accampata dentro
gli stabilimenti ormai in rovina. Oltre alle parti che descrivono anche da un
punto di vista materiale, il lavoro, la produzione e il funzionamento concreto
di una conceria, largo spazio viene dato al racconto dei rapporti familiari.
Siamo di fronte a una famiglia in crisi, segnata irreparabilmente
dall’incapacità di comunicare e risolvere i conflitti, dall’assenza totale di
empatia, dove nessuno pare essere in grado di condividere apertamente pensieri e
sentimenti e dove solo il rifugiarsi nei pochi episodi felici dell’infanzia
allontana il protagonista da un senso costante di malinconia e nostalgia per una
tenerezza raramente conosciuta, ma di cui sente comunque la mancanza; a volte,
Michelangelo si sente talmente solo d’aver paura di sparire e con suo fratello –
inesorabilmente risucchiato dalla violenza più estrema del deep web – fatica a
mantenere un rapporto che si esaurisce nell’accompagnarlo ai settimanali
incontri con la psicologa.
Tutto il romanzo è permeato da un senso di sconfitta del protagonista principale
non solo per non aver più la ditta di famiglia che dava lustro e onore al
cognome Cavalcanti, ma perché è un soggetto che vive nell’immobilismo, incapace
di ricomporre i frammenti di una famiglia e di una stantia vita sentimentale che
cerca goffamente di recuperare. È un interessante d’esordio questo di Cavallini
che ha avuto la buona intuizione di esplorare il mondo del lavoro in un ambiente
poco noto come quello della lavorazione della pelle e anche il coraggio di
affrontare il tema dell’identità personale e della difficoltà di gestire i
rapporti con gli altri e le emozioni in genere. Non solo, anche l’accenno al
deep web è un tema drammaticamente attuale e un argomento che, probabilmente,
andrebbe più diffusamente trattato e non solo dal giovane esordiente toscano.
L'articolo Gabriele Cavallini / La pelle è ovunque proviene da Pulp Magazine.