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Blitz  degli  attivisti NO SNAM  nel cantiere della centrale di Sulmona
Cinque attivisti della Campagna Per il clima Fuori dal fossile – Mario Pizzola, Giorgia Vitullo, Emilio Secchiatti, Alba Silvani e Floriana Fusto – sono entrati all’interno del cantiere Snam, a Case Pente di Sulmona, dove è in costruzione la centrale di compressione. Gli attivisti hanno esposto uno striscione con la scritta “Fuori la Snam dal nostro territorio” e hanno distribuito un volantino agli operai. Gli ambientalisti, parlando con gli operai, hanno detto: “Questo territorio è di chi ci è nato e ci vive, l’occupatore abusivo è la Snam. Noi non ce l’abbiamo con voi operai, con questa azione nonviolenta intendiamo denunciare pubblicamente l’arroganza del governo e della Snam che, violando ogni regola democratica, hanno imposto un’opera inutile, dannosa e pericolosa contro la volontà dei cittadini, della Regione e del Comune”. “Il cantiere è illegale – hanno aggiunto – perché è stato avviato senza aver prima ottemperato a tutte le prescrizioni obbligatorie stabilite dal decreto VIA e perché i lavori continuano ad andare avanti con una autorizzazione scaduta e mai rinnovata. E’ inammissibile che nessun ente di controllo, nonostante le nostre ripetute denunce, sia finora intervenuto”. “Con le sue ruspe la Snam ha devastato una grande area archeologica e distrutto le testimonianze di un insediamento umano di 4200 anni fa. L’ambiente è stato pesantemente colpito. Sono stati tagliati illegalmente 317 alberi di alberi di ulivo, preludio all’abbattimento di due milioni di alberi per la realizzazione del metanodotto Linea Adriatica lungo il tracciato di 425 chilometri da Sulmona a Minerbio. Un mega tubo che sfregerà irreparabilmente la natura incontaminata dell’Appennino, con elevata biodiversità e con specie protette ad alto rischio di estinzione, come l’Orso bruno marsicano. Un’opera che, peraltro, insisterà su aree altamente sismiche, dove negli anni scorsi si sono verificati disastrosi terremoti”.  “L’enorme costo per la realizzazione della centrale e del metanodotto – pari a due miliardi e cinquecento milioni di euro –  data l’inutilità delle due infrastrutture, è un vero e proprio crimine economico, che per di più sarà pagato dai cittadini italiani attraverso un immotivato aumento della bolletta energetica”  E ancora: “Non possiamo continuare ad essere una terra di conquista e di sacrificio per gli interessi di industrie inquinanti ed altamente impattanti. Le sostanze nocive che usciranno dalla centrale avveleneranno l’aria che respiriamo nella Conca Peligna, peggiorando la nostra salute. Esse andranno ad aggiungersi a quelle che già vengono emesse dalla turbogas della Metaenergia. Abbiamo anche il bubbone della mega discarica del Cogesa e adesso vorrebbero costruire anche l’inceneritore della Get Energy”.  “Dobbiamo dire basta a tutto questo. I nostri rappresentanti politici devono svegliarsi di fronte a quello che sta succedendo. Non possono continuare a stare alla finestra. Il nostro territorio – ricco di bellezze naturali, di storia e di cultura – non può morire. Cosa lasceremo alle future generazioni? Una landa desolata ed inquinata?  Da quasi 18 anni ci stiamo opponendo al devastante progetto della Snam e continueremo ad osteggiarlo, in modo civile e nonviolento, con tutte le nostre forze”. L’azione all’interno del cantiere è durata circa un’ora. Sul posto è sopraggiunta la Polizia che ha identificato gli attivisti e provvederà a fare rapporto all’autorità giudiziaria.    Video dell’azione       Redazione Italia
Cassa Depositi e Prestiti finanzia guerra e genocidio
Cassa Depositi e Prestiti, trasformata in società per azioni nel 2003, è oggi detenuta per l’82,77% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e per il 15,93% dalle fondazioni bancarie. Nonostante la privatizzazione più che ventennale, per Cdp dovrebbe valere ancora quanto scritto all’art. 10 del D.M. Ministero dell’Economia del 6 ottobre 2004, ovvero che “I finanziamenti della Cassa Depositi e Prestiti rivolti a Stato, Regioni, Enti Locali, enti pubblici e organismi di diritto pubblico, costituiscono servizio di interesse economico generale”. Tanto più considerando che su una raccolta complessiva di 356 miliardi di euro gestita da Cdp, ben 291 derivano dal risparmio postale affidatole da oltre 22 milioni di cittadini. Sappiamo che la trasformazione in società per azioni non è stata una semplice modifica giuridica, bensì uno stravolgimento storico delle funzioni di Cassa Depositi e Prestiti, che per oltre 150 anni aveva utilizzato il risparmio postale per finanziare a tassi agevolati gli investimenti degli enti pubblici, adempiendo di conseguenza ad una precisa funzione pubblica e sociale. Oggi Cassa Depositi e Prestiti è una sorta di “fondo sovrano” che agisce su tutto il settore economico e finanziario nazionale ed internazionale, avendo come unico scopo il ricavare profitti, agendo spesso in diretto antagonismo con l’interesse generale proclamato nel suo statuto. Come testimoniano gli investimenti sull’energia fossile, grazie ai quali il nostro Paese detiene un vergognoso quinto posto (dopo Canada, Corea del Sud, Giappone e Cina) nella classifica mondiale dei paesi che destinano molte più risorse a petrolio e gas rispetto a quelle destinate alle energie rinnovabili. D’altronde, non va dimenticato come nel settore energetico Cdp non agisca solo come ente finanziatore, bensì come attore in campo, detenendo il 31,35% di Snam, il 25,96% di Italgas, il 29,85% di Terna e soprattutto il 31,83% di Eni, una delle “big seven” multinazionali del petrolio e del gas. Ma lo stravolgimento delle funzioni di Cassa Depositi e Prestiti è oggi reso ancor più evidente dallo scenario di guerra e riarmo nel quale le grandi élites finanziarie e industriali e i governi stanno cercando di trascinarci. Il sito di Cassa Depositi e Prestiti trabocca di valori, di codici etici e di sostenibilità, come si conviene al politically correct di ogni moderna azienda. Ma come si conciliano con la partecipazione al 71% in Fincantieri, società in prima fila nella produzione di armamenti militari, il cui Amministratore Delegato Pier Roberto Folgiero ha appena dichiarato: “Con il piano di riarmo, l’Italia ha capito che è bene lucidare i gioielli di famiglia per presentarli al meglio sul mercato internazionale, non solo per scopi industriali ma anche geopolitici”? L’ultima vergogna di questo percorso -che rende Cdp direttamente complice del genocidio del popolo palestinese- è il recentissimo programma di investimenti avviato da Cassa Depositi e Prestiti verso start up israeliane di punta nei campi dell’Intelligenza Artificiale e dell’informatica quantistica, pensato come alleanza strategica e cooperazione tecnologica di lungo periodo fra i due paesi. Due domande sono a questo punto irrimandabili: dentro il Parlamento nessuno ha qualcosa da dire, a partire dalla Commissione di Vigilanza su Cassa Depositi e Prestiti? E fuori dal Parlamento, non è venuto il momento che movimenti, realtà sociali e sindacali mettano al centro delle lotte il contrasto alle scelte qui descritte e rivendichino la socializzazione e la trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti? Tutto ciò che viene dirottato verso la guerra è sottratto a società, natura, beni comuni e diritti. Non possiamo permetterglielo. Marco Bersani (articolo pubblicato in “Nuova Finanza Pubblica” de “Il Manifesto” del 23 agosto 2025) Attac Italia
“L’idrogeno non è una soluzione, ma l’ennesimo piacere alle multinazionali come Snam”. Il nuovo rapporto di ReCommon
 ReCommon lancia oggi la pubblicazione “La strategia sull’idrogeno è solo un favore a Snam?” – https://www.recommon.org/idrogeno-ennesimo-piacere-alle-multinazionali-come-snam/ – redatta con il supporto tecnico e analitico degli esponenti del mondo accademico Leonardo Setti e Federico De Robbio. Il rapporto dimostra come i due obiettivi della strategia sull’idrogeno dell’attuale governo, la decarbonizzazione e la sicurezza energetica, non possano essere raggiunti ma che le linee guida molto generiche del governo vadano quasi a esclusivo beneficio di Snam, una delle società capofila mondiali della costruzione e gestione delle reti di trasporto del gas. Per la multinazionale italiana l’idrogeno diventa un “utile strumento” per allungare la vita di vecchie infrastrutture per il gas e posare nuove tubazioni, così da alimentare il suo business as usual.  La Strategia Idrogeno ipotizza vari contesti futuri di diffusione dell’idrogeno nell’economia, con proiezioni fino al 2050, che cambiano in base a due variabili principali: la domanda nazionale e la composizione del mix dell’idrogeno disponibile sul mercato, tra produzione interna e importazioni. La prima può semplicemente essere più elevata o meno elevata. Il secondo è l’elemento dirimente per comprendere appieno la valenza della strategia governativa, perché basato su precise scelte politiche, tenendo sempre a mente che l’idrogeno può essere più o meno pulito, perché prodotto da rinnovabili (verde), gas (grigio) o cattura e stoccaggio della CO2 (blu). La “diffusione” è indicatore del rapporto tra domanda e offerta: ossia per “diffondersi” l’idrogeno ha bisogno di essere sia prodotto che domandato. Dalla ricerca emerge che qualora la produzione di idrogeno si dovesse concentrare nel nostro Paese, il solo impiego delle rinnovabili non basterebbe, come dimostrano le cifre. Per ottenere idrogeno verde puntando su fonti come idroelettrico, biomasse o geotermico, complessivamente 44,5 TWh di produzione annuale, si impiegherebbe infatti più energia di quanta se ne vorrebbe ottenere. Se invece per realizzare idrogeno verde si destinassero tutti gli oltre 58 TWh di energia da fotovoltaico ed eolico registrati in un anno in Italia, si produrrebbero solo 1,1 milioni di tonnellate di idrogeno verde in forma gassosa, o 0,9 milioni di tonnellate di idrogeno verde in forma liquida. Una quantità davvero bassa, che permetterebbe di coprire poco più della soglia minima di produzione interna dello scenario a penetrazione alta (0,7 milioni di tonnellate l’anno), utilizzando però l’intera capacità eolica e da fotovoltaico attualmente installata in Italia. Per dare sostenibilità a questo scenario, l’Italia dovrebbe raddoppiare dall’oggi al domani la sua capacità di produzione energetica da fonti rinnovabili e destinarla in toto alla produzione di idrogeno. Un’ipotesi irrealizzabile. È per questo che si ipotizza l’uso della cattura e dello stoccaggio della CO₂ per aumentare la produzione di idrogeno, che però non sarebbe più “verde” ma derivato dalla filiera fossile, aumentando quindi la dipendenza da petrolio e gas. Ma se l’idrogeno prodotto in Italia fosse grigio (da filiera fossile) invece che verde, le emissioni climalteranti potrebbero addirittura aumentare. Nel caso dello scenario “Base”, nell’ipotesi di una produzione di idrogeno principalmente grigio, le emissioni di CO₂ potrebbero aumentare di 26 milioni di tonnellate, ovvero +6,7% rispetto alle emissioni italiane attuali. Nello scenario ad “Alta” penetrazione di idrogeno, le emissioni di CO₂ equivalente potrebbero salire di ben 52 milioni di tonnellate, ovvero +13,3% rispetto alle emissioni italiane attuali. Passando allo scenario improntato sull’import, una delle assunzioni della strategia italiana è che produrre idrogeno nel Nord Africa, in particolare in Tunisia e Algeria, potrebbe risultare conveniente in quanto il costo di realizzazione in questi paesi sarebbe molto più basso che in Italia. Un’altra precondizione riguarda i vantaggi futuri, sempre in termini di riduzioni dei costi, che dovrebbero derivare dall’innovazione tecnologica degli elettrolizzatori. Peccato che la strategia non approfondisca nessuno di questi aspetti, né si preoccupi di fornire dati di riferimento, lasciandoci in questo limbo di fiducia cieca per le strutture di potere esistenti, il mercato e l’innovazione tecnologica. E senza contare i diversi costi nascosti che la strategia tralascia. Per esempio quelli del trasporto di idrogeno su lunga distanza, che necessita di tre volte l’energia necessaria a trasportare gas. Nello specifico, servirebbero almeno 20TWh di potenza rinnovabile dedicata solamente per il trasporto e la distribuzione dell’idrogeno importato dal Nord Africa. L’ipotesi di importare 0,7 milioni di tonnellate di idrogeno verde, come previsto nello scenario di “diffusione base” della strategia, significherebbe usare 20TWh per ricavare l’equivalente di 19TWh di energia elettrica utile. Un paradosso di inefficienza, ancora di più se parliamo di energia rinnovabile che potrebbe essere utilizzata direttamente sia in Italia che in Tunisia e Algeria, garantendo maggiori benefici alla popolazione residente e al tessuto produttivo locale. Eppure l’ipotesi di importare l’idrogeno verde dalla Tunisia è tra quelle con maggiore sostegno politico, proprio perché strettamente collegata alla costruzione del SouthH2Corridor, progetto cardine sia del Piano Mattei che della EU Global Gateway, il gran plan infrastrutturale della Commissione europea, oltre che del piano decennale di sviluppo delle infrastrutture di Snam. «La strategia italiana sull’idrogeno va in due possibili direzioni, entrambe sbagliate» ha dichiarato Elena Gerebizza, autrice del rapporto. «In un caso punta forte su una falsa soluzione fallimentare e dispendiosa come il CCS, nell’altro ‘abbraccia’ la continuazione di un modello coloniale in chiave green che avrebbe ripercussioni negative in particolare per la Tunisia. Comunque vada, a beneficiare delle vaghe e immaginifiche linee guida del governo è la Snam, multinazionale che sta contribuendo a perpetuare un sistema fossile con tutte le ingiustizie sociali, ecologiche e climatiche che lo hanno fino ad oggi caratterizzato, facendosi scudo dietro narrazioni sulla sostenibilità radicate in soluzioni insostenibili e fallimentari come l’idrogeno» ha concluso Gerebizza. Re: Common