Taranto, chi ha le chiavi del Palazzo d’Inverno?
Il 28 luglio resterà a lungo nella memoria collettiva della città. Un’altalena
di emozioni a cui ha fatto seguito un esito imprevisto. A tarda sera, quando la
pioggia aveva ormai svuotato il lungo presidio sotto Palazzo di Città, è
arrivata la notizia destinata a incidere sul quadro politico: il sindaco Piero
Bitetti ha rassegnato le dimissioni, a soli quarantuno giorni dall’inizio del
suo mandato.
Tutto era cominciato nel primo pomeriggio, con un incontro promosso
dall’amministrazione comunale con le organizzazioni e i movimenti. Un mosaico
composito di soggetti, con traiettorie e vocabolari differenti, chiamati a
discutere del futuro della città e dell’ex-Ilva. Il tempo programmato non è
bastato a garantire la possibilità di intervento per tuttə, e molte voci sono
rimaste inascoltate.
Nel frattempo, fuori dal Palazzo, un presidio attendeva l’esito del confronto.
La tensione cresceva, alimentata dalla percezione di un dialogo asimmetrico.
Nell’atrio dell’edificio, al di là delle vetrate che separano gli spazi
istituzionali dalla città, la piazza ha preso parola: cori, mani che battevano
ritmate, corpi stretti l’unə all’altrə. Un’espressione collettiva di rabbia –
intensa ma tutt’altro che clamorosa, soprattutto se si guarda al passato recente
della città. Ancora una volta, Emiliano è stato – a distanza – il bersaglio
principale della contestazione: il suo sostegno all’accordo di programma
proposto dal governo, ritenuto irricevibile da ampi settori sociali, è una
ferita aperta.
QUALE AGIBILITÀ POLITICA?
Poco dopo quella contestazione, Bitetti ha annunciato le dimissioni, motivandole
con una «mancanza di agibilità politica» e facendo riferimento alle «minacce
subite». Secondo il racconto mediatico, queste dimissioni sarebbero l’effetto
diretto della protesta sotto il Comune. Ma, osservata da vicino, questa
interpretazione appare fragile. Chi accetta di guidare una città complessa come
Taranto non può ignorare la possibilità di un dissenso forte, pubblico, talvolta
anche ruvido – che, in questo caso, non è stato neanche particolarmente acceso.
La contestazione espressa durante il presidio è in continuità con le forme
storiche del conflitto ambientale, a ogni livello. Taranto è una città
attraversata dalla rabbia e questo è un fatto politico. Non si tratta di un
sentimento contingente, né di un tratto atavico o endemico: è il prodotto
storico di scelte politiche reiterate nel tempo. Una rabbia che nasce non solo
da condizioni materiali – povertà diffusa, frattura profonda tra istituzioni e
città, inquinamento stratificato – ma da una traiettoria istituzionale segnata,
a ogni livello, da promesse disattese e decisioni calate dall’alto.
> L’accordo di programma proposto dal governo, nella sua attuale formulazione, è
> l’ennesima ipoteca sul futuro della città: una transizione industriale che non
> elimina i fattori di rischio, ma che è percepita in sostanziale continuità –
> con altri mezzi – dell’attuale assetto produttivo inquinante.
Le dimissioni del sindaco potrebbero allora essere non tanto l’effetto di una
pressione esterna, quanto il segnale di un’impasse interna. Da un lato, il peso
delle pressioni governative per chiudere l’intesa; dall’altro, il vuoto di
strumenti politici per abitare, in modo non difensivo, il conflitto ambientale –
un limite che attraversa il centrosinistra italiano in maniera strutturale. La
“mancanza di agibilità” evocata da Bitetti sembra alludere, più che alle
presunte minaccie, alla difficoltà di esercitare i propri poteri in assenza di
una strategia propria.
BUONƏ E CATTIVƏ
Il giorno successivo, la stampa locale ha riattivato schemi logori: si è parlato
di «violenza organizzata», di presenze «a volto coperto». Una rappresentazione
caricaturale e usurata, che svuota di senso la mobilitazione e tenta di
ricondurre il conflitto politico a una questione di ordine pubblico.
> È una narrazione strumentale e, in questa occasione, particolarmente fragile.
> La piazza di ieri era composta da soggettività diverse, con posture, linguaggi
> e motivazioni eterogenee, unite da una parola d’ordine condivisa: il rifiuto
> dell’accordo di programma.
Etichettare come “non dialogante” una parte del presidio significa rimuovere le
condizioni che hanno generato quella mobilitazione: un desiderio diffuso di
respingere l’accordo prospettato dal governo. Accettare questa narrazione,
cristallizzandone i presupposti – e quindi interiorizzando la contrapposizione
tra manifestanti “ragionevoli” e “radicali” – significa rafforzare l’impianto
retorico di chi mira a screditare l’intero campo del dissenso e frammentarlo.
Può essere un esercizio utile, invece, riconoscere che la differenza di postura
in piazza non è un ostacolo, ma un elemento costitutivo di ogni mobilitazione
ampia. E che la posta in gioco non sono i toni, ma le decisioni da assumere.
OPPORTUNITÀ E TRAPPOLA DELLA “GIORNATA CAMPALE”
Dopo le dimissioni del sindaco, il Consiglio comunale monotematico sull’accordo
di programma, inizialmente previsto per il 30 luglio, è rinviato a data da
destinarsi. Ma il nodo non potrà essere aggirato a lungo: l’assunzione di
responsabilità, da parte del Consiglio comunale, è ineludibile. La città ha
diritto a una discussione pubblica sul futuro dell’ex-Ilva. Non una formalità,
ma un passaggio necessario di prossimità istituzionale.
Nell’attuale scenario, il Consiglio può rappresentare una leva politica. Un
rifiuto esplicito dell’accordo da parte dell’assemblea cittadina produrrebbe un
effetto concreto: indebolire il dispositivo governativo, rimettere in circolo il
conflitto. Ma è importante non proiettare aspettative sproporzionate. Il
Consiglio non è il baricentro del potere. Da solo, non ha la forza di ribaltare
l’architettura decisionale.
Il dossier ex-Ilva è maneggiato da una rete di attori eterogenei – governo
centrale, sindacati, organizzazioni imprenditoriali, regione – con traiettorie
convergenti. In questo quadro, il margine di azione del Comune è ridotto, ma
tutt’altro che irrilevante. Proprio per questo, il suo ruolo non va inteso come
decisore di ultima istanza, ma come un importante snodo simbolico e politico.
Dietrologie e ricostruzioni avventurose sulle dimissioni del sindaco sono, in
questa fase, un esercizio poco efficace. Che si tratti di una ritirata tattica,
di una scelta affrettata o di un modo per sottrarsi alle tensioni crescenti, è
questione secondaria – anche perché gli indizi lasciano prevedere un imminente
rientro. Ciò che conta è ciò che accadrà nei prossimi giorni. Gli effetti delle
dimissioni – più delle intenzioni – saranno leggibili nel breve periodo. La
sfida, ora, è lavorare con forza per evitare il riallineamento delle
istituzioni: probabilmente la vera posta in gioco nel passo indietro del
Sindaco.
> Non esiste un Palazzo d’Inverno da espugnare – e tantomeno, in questa fase, il
> Palazzo di Città può assumere un ruolo di questa portata. La governance
> dell’ex-Ilva è un intreccio mobile di attori eterogenei. Nella frammentazione
> delle istituzioni si apre una possibilità concreta: riscrivere radicalmente le
> prospettive della città.
In questa frattura le mobilitazioni possono radicarsi e crescere, a patto di
esercitare collettivamente, con continuità, la capacità di leggere, senza schemi
rigidi, la posizione degli attori istituzionali, impedire ricompattamenti,
individuare spazi di negoziazione nei quali affermare con forza la propria
postura autonoma. Decostruire rappresentazioni monolitiche del potere è parte
essenziale di questo lavoro: immaginare il potere come un blocco omogeneo e
invincibile – anche quando può essere in affanno – non fa che rafforzarne la sua
presa.
La compattezza del fronte istituzionale – che fino a due settimane fa appariva
un elemento dato – può essere ulteriormente incrinata. Ed è da quelle crepe che
può passare l’ampliamento del conflitto.
L’immagine di copertina è di Icelandtourist12
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