L’ombra della Storia scorre tra i fiumi di Haiti
L’OMBRA DELLA STORIA SCORRE TRA I FIUMI DI HAITI
La fattoria delle ossa ✏ Edwidge Danticat
1 Maggio 2022/di Eleonora Salvatore
CATEGORIE: Libreria / Narrativa / Romanzo
Tempo di lettura: 6 minuti
*
La fattoria delle ossa, Edwidge Danticat, Piemme, 2005, traduzione dall’inglese
di Maria Clara Pasetti.
La fattoria delle ossa è un romanzo di rara intensità il cui centro narrativo si
misura sul peso specifico di un massacro che ha segnato irrimediabilmente le
relazioni umane e politiche tra Haiti e Repubblica Dominicana sull’isola di
Hispaniola nel corso del Novecento ed oltre.
Edwidge Danticat con questo romanzo firma un’opera pensata come un mosaico di
memorie scheggiate, fluttuanti tra la vita e la morte, che galleggiano tra campi
di tabacco e canna mentre i sanbas, i cantastorie, parlano di donne dai capelli
color zucca che danzano al ritmo vorticoso della calinda.
Amabelle Désir, protagonista e narratrice, è haitiana e presta servizio come
domestica nella dimora della señora Valencia, moglie del señor Pico, ufficiale
dell’esercito dominicano negli anni della dittatura di Rafael Leónidas Trujillo
Molina. Ha perso i genitori, Antoine Désir e Man Irelle, annegati mentre
cercavano di guadare un fiume, confine naturale tra le due metà dell’isola.
L’esito letale di questa prima migrazione da Haiti a Santo Domingo apre la
catena di traumi e lutti che costellano il percorso di vita di Amabelle,
testimone e vittima scampata ad un massacro.
I FATTI
Nell’ottobre 1937 la notizia della “campagna di sterminio” e delle uccisioni di
massa dei tagliatori di canna da zucchero haitiani impiegati nelle piantagioni
di Santo Domingo era già stata trasmessa a Washington da Henry Norweb,
l’ambasciatore statunitense sull’isola. Alla base di quegli eccidi vi era il
desiderio di purezza razziale a lungo accarezzato dal Generalissimo Trujillo.
Sin dagli esordi il regime dittatoriale aveva propagandato la duplice menzogna
di un’omogeneizzazione etnica e di una dominicanizzazione della piramide sociale
a partire dalle regioni di confine,
«UNA ZONA TURBOLENTA CON UN KARMA MALINCONICO»
nell’immaginifica perifrasi coniata da Thomas Pynchon in Bleeding Edge (La
cresta dell’onda, Einaudi, 2014). Quelle zone, del resto, erano da
secoli abitate da rayanos, frutto dell’umana mescolanza figlia di matrimoni
misti haitiano-dominicani.
Gli intellettuali organici al regime veicolarono una narrazione della storia
secondo cui solo il rispetto della triade perfetta costruita su bianchezza,
cattolicesimo e valorizzazione del retaggio spagnolo avrebbe consentito alla
Repubblica Dominicana di svilupparsi nell’opposizione eterna ad una Haiti nera
popolata, nell’ideologia razzista dell’intelligentsia trujillista, da arretrati
e superstiziosi africani.
Il massacro del 1937, nella memorialistica e nella storiografia, viene indicato
con diverse espressioni che compaiono anche nel testo: el corte (il taglio),
kout kouto-a (la pugnalata, in lingua creolo-haitiana), la masacre del perejil
(il massacro del prezzemolo). Quest’ultima espressione rimanda alla pratica dei
soldati dominicani di domandare agli afrodiscendenti nelle terre di confine di
pronunciare correttamente la parola perejil. Date le difficoltà per un
francofono di non arrotolare la erre, qualsiasi individuo che non si mostrasse
in grado di scandire perfettamente quella parola, veniva considerato haitiano e
ucciso.
La fattoria delle ossa può essere considerata a buon diritto, insieme al romanzo
di René Philoctète, Le peuple des terres mêlées, una delle opere letterarie più
riuscite sull’argomento perché in essa i protagonisti danno sostanza a quelle
culture dell’Atlantico nero, di cui parla Paul Gilroy, che
«NELLA STORIA DELLE ESPERIENZE FORZATE DI ATTRAVERSAMENTO COME LA SCHIAVITÙ E
L’EMIGRAZIONE […] HANNO CREATO MEZZI DI CONSOLAZIONE PER ELABORARE LA
SOFFERENZA.»
IL ROMANZO
Sullo sfondo di questa storia tragica, Edwidge Danticat imbastisce storie
d’amore accomunate da una certa crudeltà del destino. Amabelle è legata a
Sebastien, “braccia d’acciaio” ed un’infanzia interrotta dalla morte del padre
travolto da un uragano. L’amore tra Amabelle e Sebastien si nutre di sogni e di
speranze di libertà che miseramente svaniscono in una notte, forse in un campo
di sapodilla o tra le foglie larghe di un bananeto quando Sebastien e la sorella
Mimi presumibilmente vengono catturati ed uccisi dalla truppa del señor Pico nel
loro tentativo di raggiungere Haiti.
La morte di Sebastien sembra, infatti, rimanere inghiottita tra le pagine del
romanzo, sospesa nell’incertezza della memoria degli incontri onirici durante i
quali Amabelle ritrova l’amato la cui storia
«ASSOMIGLIA A UN PESCE SENZA CODA, A UN VESTITO SENZA ORLO, A UNA GOCCIA CHE NON
CADE, A UN CORPO CHE NON FA OMBRA NEL SOLE.»
Sebastien non è l’unico a far visita ad Amabelle nelle incursioni notturne dei
sogni. La madre “dalla pelle di tre diverse sfumature notturne”, avvolta in un
periplo di vetro, ha il volto trasfigurato di Metrès Dlo, lo spirito dei fiumi.
Donna, in vita dalle poche e indurite parole, nei sogni ricorda alla figlia:
«NON VOLEVO ILLUDERTI SULL’AMORE. VOLEVO INSEGNARTI CHE È RARO, NON LO TROVI
DAPPERTUTTO E HA SEMPRE UN PREZZO DA PAGARE.»
Alla coppia formata da Amabelle e Sebastien, sembra fare da contraltare quella
che tiene unita la señora Valencia e il señor Pico in un matrimonio triste e
quasi maledetto dalla morte del piccolo Rafi “pelle di latte”, chiamato così per
omaggiare il dittatore caraibico, gemello di Rosalinda dalla pelle “intensamente
bronzea, di una sfumatura tra il guscio delle noci brasiliane e la salsefrica
nera”. Alla vista di quella bambina così diversa da lei, la señora Valencia,
subito dopo il parto, chiede ad Amabelle:
«POVERO AMORE MIO, CHE SUCCEDERÀ SE LA PRENDONO PER UNA DELLA TUA GENTE?»
La domanda è rivelatrice della visione razzializzata dell’altro che struttura la
società dominicana nella sua componente latina e bianca, e si struttura
immancabilmente lungo la linea del colore. Anche la reazione di Papi, padre di
Valencia, conferma l’attaccamento e l’ossessione per la bianchezza. Osservando
la nipote esclama:
«DIPENDERÀ DALLA FAMIGLIA PATERNA. MIA FIGLIA È NATA NELLA CAPITALE DI QUESTO
PAESE. SUA MADRE ERA DI PURO SANGUE SPAGNOLO, DI UNA FAMIGLIA CHE RISALE AI
CONQUISTADORES. QUANTO A ME, SONO NATO IN SPAGNA.»
Dietro questa precisazione genealogica si cela l’assertività della certezza
delle proprie origini bianche mentre si insinuano dubbi sul lignaggio familiare
dell’ufficiale Pico. I tratti somatici che tradiscono una discendenza africana
non sono stati cancellati da matrimoni contratti di generazione in generazione
sulla spinta di un blanqueamiento concepito anche come brutale e radicale
strategia di sopravvivenza.
La prematura scomparsa del figlio bianco, pertanto, non viene vissuta come la
perdita di un figlio bensì come il tramonto e la sconfitta di una pulsione alla
denegrificación, che il regime trujillista aveva posto come base per la
costruzione della nuova società dominicana. Anche sul conto di Trujillo Molina
si vociferava che il suo albero genealogico avesse attinto linfa vitale da una
radice afro-haitiana. Pico è, allora, l’ufficiale che cerca di ingraziarsi il
dittatore ma allo stesso tempo il suo alter ego.
Non è un caso se l’amore, inteso come l’incontro fecondo con l’Altro, sia il
perno di questo romanzo e del testo di René Philoctète incentrato sull’amore tra
Adele, bracciante haitiana, e il dominicano Pedro. Solo l’amore – anche se c’è
un prezzo da pagare – svela l’ipocrisia delle identità monolitiche e la follia
di un modello tanato-politico che vuole la morte dell’Altro così simile a Noi.✎
INCIPIT
«Quasi ogni notte viene a interrompere il mio incubo ricorrente, quello dei miei
genitori che annegano. Mentre il mio corpo lotta contro il sonno, sforzandosi di
svegliarsi, lui mi sussurra:
«Stai ferma che ti riporto indietro».
«Indietro dove?» domando senza che le mie labbra si muovano.
«Ti riporto nella grotta dall’altra parte del fiume.»
Barcollo goffamente tentando di alzarmi. Lui ristabilisce il mio equilibrio con
la punta delle sue lunghe dita adunche, che strisciano verso di me, dotate di
vita propria. Lo abbraccio e con la testa gli arrivo a malapena a metà del
petto. È assolutamente bello nella luce fioca della lampada a olio, sebbene la
lucente pelle nera del suo viso sia devastata dai solchi delle ferite inferte
dagli steli di canna da zucchero. Ha braccia grandi come le mie cosce nude.
Braccia d’acciaio, indurite da quattro anni di raccolti…»
Tags: Edwidge Danticat, evidenza, Haiti, inglese, Paul Gilroy, Piemme, René
Philoctète, Repubblica Dominicana, Thomas Pynchon
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