Suliman, Fatima e la tenace resistenza di Al Fashir in Darfur
“Una parte di Al Fashir ancora resiste” mi dice Suliman. Resiste ai Janjaweed
(Forze di Supporto Rapido). Poi nel séguito della telefonata mi precisa che è
solo il 25% della città ad essere ancora sotto il controllo delle Forze Armate
Sudanesi e delle Forze congiunte. Il resto del Darfur è ormai tutto in mano
-ahimé- ai Janjaweed: si tratta del 75% della stessa Al Fashir (capitale del
Darfur settentrionale), e interamente delle quattro capitali delle
corrispondenti altre regioni del Darfur: Nyala (capitale del Darfur meridionale,
la città di Suliman, dove ancora si trova il fratello maestro di scuola che
avendo fatto partire moglie e figli non aveva abbastanza soldi per mettersi in
viaggio, alias in fuga, lui stesso); Zalingei (Darfur Centrale); El Geneina
(Darfur Orientale, quello confinante col Ciad dove hanno riparato parenti di
Suliman); El Daein (capitale del Darfur Orientale).
Nei bei palazzi costruiti dagli inglesi rimasti in piedi in queste città si sono
sistemati gli odiosi Janjaweed, assassini seriali mai sazi del sangue dei
cittadini africani che abitano la loro terra e vivono nelle loro case. O forse
dovrei dire “abitavano” e “vivevano”. Ma quel pezzetto di Al Fashir che resiste,
ormai da 225 giorni, è un simbolo per tutto il Darfur. Chiedo se oltre a chi
combatte ci sono dentro la città ancora cittadini che non sono riusciti ad
andare via. E sì, qualche famiglia c’è, ma pochissime, rimaste intrappolate. Per
il resto, gli abitanti di Al Fashir, così come quelli di tanti villaggi dei
dintorni erano tutti confluiti nei grandi campi profughi allestiti fuori della
città, di cui il più grande era Zanzan. Parlo al passato perché ora quel campo
con il suo milione e mezzo di persone non c’è più: “Tutti morti o andati via”.
Quando i Janjaweed sono entrati, dopo averlo a lungo assediato, hanno trovato
tanti bambini morti perché senza più cibo né acqua e senza più genitori. “Zanzan
finito” dice laconicamente il mio amico per telefono.
Gli chiedo del Kordofan: sentivo giorni fa al radiogiornale che ci sono state
migliaia di morti. Sì, me lo conferma: da circa 20 giorni il Kordofan (una
regione a sud-ovest di Khartoum) è assediato in tante delle sue città, con morti
a non finire.
E Khartoum? “Adesso non c’è guerra” – dice – “però… non lo so”- aggiunge in tono
mesto. In circa il 30% delle case della capitale sono stati trovati corpi di
cittadini morti (gli abitanti delle case stesse). “Mia casa non c’è corpi… solo
c’è un bagno chiuso”. Quindi inaccessibile e non si sa cosa ci sia dentro. Le
testimonianze sono del suo vicino di casa che per fortuna è riuscito a salvarsi.
“Tua figlia?” domando. E mi riferisco alla sua prima figlia (nata da un
precedente matrimonio) che abita a Melit, città a nord di Al Fashir, sulla via
per la Libia; mi dice che è lì con quattro figli e con lei c’è la cognata con
tre figli. I mariti sono andati probabilmente in Ciad a cercare lavoro e questo
nucleo di donne e bambini si trova circondato dalla guerra, senza strade per
fuggire. La guerra fa anche questo: distrugge le strade oltreché le case: non
puoi abitare e non puoi andartene.
Il figlio Ahmed sta ad Anzari, a nord del Sudan: è tornato lì dove si era
fermato mesi fa ed aveva lavorato come tecnico dei telefoni satellitari; è
ritornato a fare quel lavoro lasciando Il Cairo (dove era andato a raggiungere i
genitori) verificata l’impossibilità di lavorare nella capitale egiziana. Questo
ragazzo ormai forse 28 enne, il “piccolo” di Suliman e Fatima, è un “acrobata
dei tetti”: a Khartoum si era specializzato frequentando un corso ed era stato
chiamato -fra l’altro- dall’Ambasciata Italiana per installare la parabola del
satellitare sopra al loro palazzo. Chiedo a Suliman se essendo così giovane e
pericolosamente appetibile per questi delinquenti combattenti non sia per lui
rischioso trovarsi in territorio sudanese, ma Suliman mi dice che i Janjaweed
non arrivano così a nord, non osano avvicinarsi all’Egitto, e anche se fra
Anzari ed Assuan, nel sud dell’Egitto, ci sono comunque più di 500 Km si tratta
però di chilometri di puro deserto. Questa è la vita di un giovane sudanese,
brillante studente di ingegneria che ha dovuto fermarsi al terzo anno perché
all’Università di Khartoum non c’è il biennio di ingegneria. Sognava di
completare gli studi in un’Università italiana (avevamo puntato e contattato
Perugia), ma il suo sogno è stato brutalmente interrotto. Mi chiedo quanti altri
e altre siano nella stessa situazione. Probabilmente tutti e tutte – mi
rispondo: la guerra è particolarmente crudele con i giovani; è crudele con il
futuro.
Finalmente chiedo notizie di loro due – lui e sua moglie Fatima: “E voi come
state?” “Siamo … così.” mi risponde, con un tono di triste accettazione. Fatima
per la sua malattia auto-immune (il Lupus) deve andare ogni 14 giorni in un
ospedale (privato) a farsi fare due iniezioni. L’ospedale sta appena fuori dalla
città, in una parte moderna e non collegata con la metro; devono prendere il
taxi. La visita non è particolarmente cara, ma le due punture sì: sono 100
dollari da sborsare ogni 14 giorni. Per fortuna in questo periodo stanno
ricevendo qualche supporto economico dalle due figlie – una dalla Germania e
l’altra dagli Stati Uniti (speriamo non diventi vittima delle nuove ‘politiche
migratorie’ di Trump, che altro non sono se non deportazioni di massa).
Ecco cosa significa la mancanza di ‘Stato sociale’ – dico fra me e me pensando
al “Lupus” da curare privatamente: i cittadini indigenti che non hanno aiuti e
supporti da altre persone possono tranquillamente crepare. Ecco il tipo di Stato
verso cui noi italiani stiamo pericolosamente tornando, mentre riempiamo gli
arsenali a dismisura perché così ci chiedono le lobbies delle armi.
Suliman ricorda la guerra che i Janjaweed (finanziati dall’allora governo di Al
Bashir) avevano scatenato in Darfur agli inizi di questo millennio: diversamente
da venti anni fa, quando ad essere attaccato era solo il Darfur, oggi la guerra
è in tutto il Paese: dei 18 stati che compongono il Sudan, solo 6 non sono sotto
il controllo delle Forze di Supporto Rapido (alias i Janjaweed)e sono
controllati dal governo sudanese. Si tratta degli Stati del Nilo Azzurro, di
Kassala, di Gedaref, dello Stato del Nord, dello Stato del Nilo e di quello del
Mar Rosso.
Nella capitale di quest’ultimo, Port Sudan, sono stati trasferiti tutti gli
uffici amministrativi e le ambasciate fin da quando, a pochi mesi dall’inizio
della guerra, il governo decise di lasciare Khartoum che era entrata da subito
nel pieno delle battaglie. E a Port Sudan erano dovuti andare Suliman e Fatima
quando, lasciato il campo profughi dell’Etiopia (racconti da far inorridire),
avevano deciso di dirigersi verso l’Egitto: la “nuova capitale” sudanese era
tappa d’obbligo per mettere in regola i passaporti. Una città dal clima pessimo:
molto calda e umidissima, 50 gradi, anche la notte. “Port Sudan: un forno”
ricorda Suliman, mentre “Darfur adesso non caldo: pioggia. Sempre buon clima in
Darfur”. Quei tre mesi del caldo -mi spiega- sono mitigati dalla pioggia. E Al
Cairo per quanto riguarda il clima? “Normale. 40-45 gradi, qualche giorno 35”.
Ma non c’è umidità (nonostante la presenza del Nilo che -se ho capito bene- ha
poca acqua lì alla foce); è un caldo secco.
La TV egiziana non parla di questa gravissima guerra che è scoppiata ai propri
confini e di cui lo stesso Egitto risente fortemente per la grande quantità di
profughi arrivati e in arrivo. Si parla invece della Palestina, dell’assedio di
Gaza (chissà se usano la parola “genocidio” o se sono pavidi come i nostri
governanti). Nomino Meloni; lì per lì Suliman non capisce; gli ricordo che è la
nostra Presidente del Consiglio. E lui, avendola a quel punto messa a fuoco:
“Ah, quella signora che io non piace!”. Rido e aggiungo: “Anche io non piace”.
Vuole poi che gli ricordi il nome del partito di questa signora e saputolo
commenta: “Non è Sorelle. Fratelli”.
La ‘sorella’ -non d’Italia, ma del mondo- arriva poco dopo da me al telefono: è
Fatima che mi saluta avviando il nostro stringatissimo dialogo con un “Come
stai?” perfettamente pronunciato. Brava Fatima, bravo Suliman, resistenti ad
oltranza, come quel 25% di Al Fashir.
Link agli articoli precedenti:
https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/
https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-fatima-e-legitto-che-si-avvicina/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-da-un-port-sudan-di-tutti-matti-a-un-egitto-non-amato/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-finalmente-in-egitto/
https://www.pressenza.com/it/2024/11/suliman-e-fatima-il-nilo-del-cairo-non-e-il-nilo-di-khartoum/
https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-i-janjaweed-fanno-tante-cose-non-bene/
https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-in-egitto-ma-ancora-invisibili/
https://www.pressenza.com/it/2025/01/la-mia-amica-fatima-che-resiste-come-al-fashir-in-darfur/
Francesca Cerocchi