Germania anno zeroGermania anno zero Roberto Gilodi Lun, 12/01/2015 - 08:36
Negli Stati Uniti e in Inghilterra la Germania è di moda. Così pare leggendo
articoli di riviste e visitando mostre. In Italia, invece, la Germania appare
oggi come una maestra arcigna e severa, che si fa beffe degli sforzi di
rigenerazione politica ed economica intrapresi dal Belpaese a guida Renzi, e che
non perde occasione per impartire a noi, e alle altre nazioni del Mediterraneo,
lezioni di amministrazione virtuosa della cosa pubblica e del bilancio dello
stato. Angela Merkel è il ritratto vivente di quest’attitudine sanzionatoria, la
sua aria da brava massaia della politica è oggetto nel Bel Paese di commenti
irriverenti, che tradiscono, come sempre in questi casi, un senso di inferiorità
che si ammanta del suo contrario.
Nel mondo anglosassone invece la stessa signora, e la nazione che rappresenta,
sono da qualche tempo al centro di un’attenzione di segno opposto. Si
moltiplicano le iniziative tese a fornire una narrazione nuova del gigante
tedesco: una vera e propria riabilitazione che ha eliminato i luoghi comuni
sedimentati a partire dalle due catastrofi belliche del secolo scorso.
Angela Merkel in visita al Deutsche Historische Museum per la mostra: 1914-1918.
The First World War
Deutschland è diventata una nazione cool, da scoprire, di cui narrare i grandi
meriti culturali del passato ma anche e soprattutto la nuova creatività che sale
dal basso, dagli esperimenti di convivenza multietnica, dalle nuove opportunità
di lavoro, dall’immagine architettonica delle sue città in continua mutazione, a
cominciare dal suo laboratorio di innovazione più spettacolare e amato
all’estero che è Berlino.
Ed è da Berlino che si può partire per capire quanto la nazione tedesca sia
cambiata, e soprattutto se si tratta di vero cambiamento.
In Unter den Linden Nr 2 si trova il “Zeughaus”, l’arsenale di Berlino costruito
in stile barocco da Federico I di Prussia, elettore del Brandenburgo, tra il
1695 e il 1730. Oggi è la sede del Deutsches Historisches Museum, che ha
ospitato da maggio a novembre dell’anno scorso una grande esposizione sulla
Prima guerra mondiale. Per accedere all’ala dell’edificio che ospita la mostra
si passa necessariamente attraverso lo splendido cortile interno, le cui
finestre del pian terreno sono sormontate dalle 22 teste di guerrieri morenti
scolpite in pietra arenaria dal grande scultore barocco Andreas Schlüter.
Teste mozzate dai vincitori prussiani, allegorie della vittoria contro turchi e
francesi, che tuttavia di allegorico hanno poco: domina infatti la potenza
dell’espressione concreta dei volti, la sofferenza che deforma le fisiognomie,
le mascelle spalancate, l’orrore negli occhi nell’attimo che precede la fine.
La potenza militare del nuovo regno di Prussia riservava ai suoi nemici il
terrore: la consapevolezza di avere osato l’impossibile e lo strazio del corpo
come inevitabile punizione. La potenza icastica dei guerrieri morenti è il
viatico a una mostra che fa i conti con un passato in cui il sogno prussiano si
è infranto nelle trincee di Verdun.
Oggi, a distanza di cento anni, la Germania si vuole, e si sa, diversa e dunque
presenta quel lontano passato come una specie d’inganno collettivo, in cui le
singole nazioni coinvolte, tutte, e non solo quella tedesca, commisero errori di
valutazione, o proiettarono attese di riscatto politico e di crescita economica.
Ma altrettanto chiaramente spazza via il dogma della guerra inevitabile
sottolineando la responsabilità determinante della propria classe dirigente.
Le ‘liturgie nazionali’, come le chiama Oliver Janz, giovane storico tedesco,
autore del saggio 1914 – 1918. La Grande Guerra, tradotto di recente da Einaudi,
erano generosamente presenti in tutti gli stati europei, ovunque “lo spazio
pubblico fu riempito di monumenti, che celebravano monarchi, soldati, uomini di
Stato, eroi nazionali e padri fondatori come Nelson, Bismark o Garibaldi”.
La liturgia tedesca non era necessariamente più marcata di altre ma in Germania,
e in Austria, l’idea dell’inevitabilità della guerra si era propagata dalle
gerarchie militari fino ai soldati semplici, dalla politica a tutti gli strati
della popolazione.
Bandiera Tedesca Imperiale, 1914, Parigi, Musée de l'Armée
È questa molla che spiega l’attivismo germanico e il successivo fallimento della
strategia militare impostata su una guerra rapida sul fronte occidentale per poi
agire vittoriosamente su quello orientale.
La Germania che si presenta nella mostra di Berlino è dunque una nazione che fu
sconfitta dagli errori dei suoi generali, ma più ancora dalla sua ubriacatura
ideologica: da un nazionalismo innervato di darwinismo sociale, come spiega bene
Janz nel suo studio, dove la sopravvivenza del più forte è anche quella del
migliore.
Da un lato, l’ideologia dall’altra gli oggetti della guerra, le sue tracce
materiali: i luoghi, le armi, le suppellettili, i reperti, i mezzi, le
tecnologie. E i milioni di mutilati e di morti di tutte le nazioni coinvolte
perché la guerra, questo il messaggio, non è stata una fatalità inevitabile ma
il risultato delle valutazioni superficiali tanto dei militari quanto dei
politici e di una lunga serie di errori.
La mostra di Berlino dice molto della Germania di oggi: una nazione che ha
rinunciato consapevolmente e programmaticamente a una ‘verità nazionale’ per
adottare un punto di vista ‘globale’ sotto le insegne di una storiografia che si
presenta come ‘scientifica’.
Il risultato appare tranquillizzante, vuole esserlo, quindi grado zero della
retorica e diplomatica distribuzione degli attori sulla scena, ciascuno con i
suoi interessi e con il suo fardello di colpe. Persino le interpretazioni, le
letture, le prospettive appaiono dimesse, minimaliste, quasi reticenti. S’impone
lo stile della Germania di questi anni, quello impersonato perfettamente dalla
Cancelliera Angela Merkel: concretezza, moderazione, fine delle grandi
narrazioni e del “Grande Stile”.
A pochi passi dallo Zeughaus, scendendo sulla sponda sinistra della Sprea, c’è
l’ingresso nel “DDR Museum”. Ancora storia tedesca, quarant’anni dell’altra
Germania, quella comunista sotto l’ala protettrice dell’Unione Sovietica, la
Repubblica Democratica Tedesca.
Di quella storia, finita con l’abbattimento del Muro nel 1989, il museo esibisce
con dispendio di tecnologia interattiva la cultura materiale, gli stili di vita,
il mondo del lavoro, la scuola, il tempo libero, il suo motto è “La storia
toccata con mano”.
La rappresentazione scenica, che non disdegna trovate a effetto, risulta
efficace. Il ‘teatro’ della DDR si popola di figure e di oggetti dai tratti
grotteschi, comici, ridicoli. Come la vecchia Trabant esposta, e in cui si è
invitati a entrare. L’auto per i tedeschi è ancora oggi la concentrazione
simbolica del desiderio appagato, il premio dell’operosità senza cedimenti, come
mostra il parco automobilistico in circolazione per le sue strade e autostrade;
è la cifra morale del buon cittadino. Così è stato fin dagli anni Cinquanta,
tanto all’Ovest quanto all’Est.
DDR Museum, Berlino
La Trabant era l’auto per eccellenza della DDR, uno status symbol, acquistarla
richiedeva anni di sacrifici. Nelle sue linee esageratamente semplici,
all’insegna di una funzionalità assoluta, palesava tutta la mediocrità estetica
della nazione. Il ‘design’ era un lusso da capitalisti. Auto, case, edifici
pubblici dovevano uniformarsi a un criterio di razionalità elementare, fatto di
linee rette orizzontali e verticali e di una gamma di colori estremamente
limitata, tale da impedire qualsiasi tentativo di individuazione. L’uniformità
geometrica e cromatica era una sorta di equivalente figurale della virtù
politica, della superiorità morale dello stato socialista contrapposto
all’anarchia degli stili e al protagonismo individuale dell’Occidente
capitalistico.
Usciti dalla Trabant, nella mostra, s’incontrano gli altri ‘mondi della vita’ di
quella nazione: la fabbrica, la scuola, i luoghi della cultura, i teatri, il
cibo. La trovata più spettacolare del museo è il ristorante, dove gli ospiti si
trovano tra le mani una carta con i cibi tipici della Germania comunista: il
‘Ketwurst’, l’Hot dog dell’Est e poi la celebre cotoletta alla contadina del
Meclemburgo, e la ‘Grilletta’ in tutto identica all’Hamburger ma guai a usare il
nome americano.
A ben vedere nel DDR Museum si coglie sotto traccia una strana combinazione di
spettacolarità e malinconia. La domanda che aleggia nell’aria è: perché la
storia ha dovuto prendere quel corso, si poteva evitare? Perché quei diciassette
milioni di tedeschi nati nella parte sbagliata della nazione hanno dovuto subire
decenni di angherie, di controlli quotidiani, d’ipocrisie ideologiche funzionali
ai disegni egemonici dei sovietici? Come se alla fine a pagare le colpe dei
tedeschi fossero rimasti solo loro, passati da una dittatura all’altra senza
soluzione di continuità.
In realtà, le grandi questioni della storia rimangono sullo sfondo, i curatori
del museo sono più interessati agli effetti comici, come ad esempio il goffo
tentativo di instaurare una moda femminile comunista in grado di contrapporsi a
quella capitalistica dell’Occidente. E così gli spazi pubblici, le fabbriche, i
luoghi della vita associata, le case private, tutto doveva competere con l’altra
Germania sul terreno di un confronto etico: a Est la distribuzione delle risorse
secondo il bisogno, livellando i salari e l’offerta di servizi dello stato, a
Ovest la diseguaglianza dei poveri e dei ricchi.
In questo mondo costruito e pianificato a tavolino, gli ideatori del museo non
ci fanno entrare per la porta dell’ideologia, ma attraverso l’esperienza
sensoriale: si entra nelle case private, si vedono gli oggetti della vita
quotidiana, i cibi sulle tavole apparecchiate, se ne immaginano gli odori, in un
gioco continuo tra il virtuale dei filmati e il reale degli oggetti disposti
nelle sale.
Sembra quasi di entrare in una IKEA dell’Est in cui non solo c’è la casa ma
anche la scuola, l’ufficio pubblico, il teatro, la birreria.
Il visitatore deve poter provare le stesse sensazioni di chi ha vissuto
l’esperienza dello stato socialista. Conta l’aisthesis, la percezione
sensoriale; il logos, la spiegazione è il criterio della vecchia tradizione
museale ormai travolta dalla spettacolarizzazione dei nuovi allestimenti. La
storia complessa e contraddittoria di una nazione viene scomposta nelle linee
semplici di una commedia di costume, in cui i cattivi sono stati sconfitti dalla
loro stessa stupidità. Per molti anni quella vicenda era stata rappresentata in
Occidente come la tragedia di un popolo privato delle sue libertà elementari,
con i suoi disperati tentativi di fuga e l’ordine di sparare dato ai gendarmi
che controllavano il confine con la Repubblica Federale. Oggi quella storia è
rappresentata come una grande farsa su cui venticinque anni fa è calato il
sipario, uno spettacolo per turisti in cerca di emozioni, da gustare tra una
visita a un museo e un giro in battello sulla Sprea.
Forse le forme dell’elaborazione del lutto passano anche attraverso la comicità,
il ridicolo, l’assurdo. Ma se i tedeschi si raccontano oggi quella storia come
se assistessero a una commedia verrebbe da ricordare la frase di Francis Bacon,
secondo cui nel teatro della vita umana solo a dio e agli angeli è concesso di
fare da spettatori.
All’indomani del crollo dell’altra Germania, nel clima di euforia che ne seguì,
Hans Mayer ricordava nel suo La torre di Babele (1991) che quella tragicommedia
era nata sotto auspici assai diversi: dopo il 1948 molti intellettuali – il più
noto era Brecht oggi di nuovo celebrato almeno in Italia – pensarono che dalle
rovine della Germania nazista si potesse edificare una società senza classi,
culturalmente rigenerata e libera di progettare il suo futuro. Si sa come finì:
la torre crollò nel giro di pochi anni. La distrussero, scrive Hans Mayer, i
politici asserviti agli interessi di Mosca: il compagno Ulbricht e poi il suo
successore Honecker. E l’utopia fece la fine di tutte le utopie: divenne la
foglia di fico che doveva coprire gli interessi della potenza egemone.
Se i tedeschi di oggi si sono votati senza riserve alla Realpolitik, se sono i
più strenui difensori dell’ortodossia economica europea ciò è dovuto non da
ultimo al fatto che più di altri in Europa hanno toccato con mano il crollo
delle ideologie del Novecento. Nel clima di rassegnazione generale che oggi
domina in Europa i tedeschi sanno esibire una dose di realismo che sfiora il
cinismo: per loro la storia come la natura non fa salti e le fughe in avanti, i
passi più lunghi della gamba, il tenore di vita al di sopra delle proprie
possibilità – sia per il singolo come per le nazioni – prima o poi presenta il
conto e di solito comporta la perdita della libertà.
Berlino e il suo passato. Il flâneur a spasso per Berlino oggi incontra uno
spazio urbano paradossale: accanto alle grandi sperimentazioni architettoniche
degli ultimi vent’anni – il Sony Center e gli edifici di Potsdamer Platz, i
nuovi musei, il quartiere governativo – si trovano i monumenti del passato
riportati a nuova vita, ricostruiti con acribia filologica, il Reichstag, il
Duomo, i musei della Museumsinsel.
Al di là della loro perfezione, queste ricostruzioni sembrano esibire in
filigrana il loro passato di rovine. Il paradosso sta proprio in questo: più
sono meticolosi i rifacimenti e più è evidente lo stato di distruzione da cui
provengono. Quest’autenticità inautentica semina un sottile senso di morte in
ciò che oggi vuole essere nuova vita.
E getta qualche dubbio sulla diagnosi lusinghiera che dei tedeschi ha dato
recentemente George Packer sul “New Yorker” in un ritratto della Germania di
Angela Merkel che ha fatto il giro del mondo. “Come uno scrupoloso paziente in
analisi, – scrive Packer, – la Germania ha portato in superficie il suo passato,
l’ha discusso infinitamente e l’ha accettato, e questo lavoro di molti anni ha
consentito al paziente di vivere una successful new life.”
Un’intera generazione d’intellettuali e scrittori, da Günter Grass a W. G.
Sebald, da Heinrich Böll a H. M. Enzensberger ha ricordato alla nazione tedesca,
nata dopo la seconda Guerra Mondiale, che il suo successo economico e la sua
tranquillità piccolo borghese è stata costruita sulla rimozione del suo atroce
passato. Cos’ha determinato ora la grande svolta di cui parla Packer sulle
colonne del New Yorker? È vera svolta? È davvero una successful new life? O è
cambiata semplicemente l’immagine della Germania all’estero, soprattutto nel
mondo anglosassone? A questo riguardo diventa interessante la visita della
mostra in corso al British Museum, “Germany: Memories of a Nation”, dove i
tedeschi incassano oggi con moderata soddisfazione il riconoscimento di nazione
non soltanto definitivamente riscattata dal suo passato, ma anche, e forse per
la prima volta, ‘sentimentalmente’ vicina alle altre nazioni europee.
Quanto alla sua capitale esistono oggi molte Berlino: non solo quella
monumentale della memoria o quella delle archistar. Intorno a questa capitale
sta crescendo la città delle nuove comunità sociali, fatta di giovani e meno
giovani, tedeschi e stranieri provenienti da tutto il mondo, precari per
necessità e vocazione, artisti, studenti, musicisti, artigiani, un tessuto di
nuove relazioni e nuove sinergie, che rappresenta un potenziale ancora tutto da
esplorare. Da un lato, i vecchi emigrati lavoratori, turchi, italiani, greci,
dall’altra gli ex studenti Erasmus dal Sud Europa, che dopo la laurea inutile
nel loro paese sono ritornati e ora campano di lavori precari tra call center e
pizzerie. E infine un ceto di neoborghesia colta e snob, bio-responsabile con
l’auto ibrida che proviene dall’Occidente ricco, americani, canadesi, inglesi,
francesi. Un melting pot in bilico tra neoproletariato etnico e nuovo ceto medio
che si è insediato nei quartieri che oggi fanno tendenza: Neuköln, Kreuzberg e
Prenzlauer Berg.
Il resto della Germania osserva con rassegnata diffidenza questo esperimento
sociale: non è l’immagine che essa ha di sé, e forse nemmeno quella che vorrebbe
dare al mondo, ma sono una certa Europa e America intellettuale che la vogliono
vedere così e la politica tedesca asseconda ed esporta volentieri questo
ritratto inedito della nazione.
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Roberto Gilodi
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