Lettera di Maja, 21 febbraioQuesta è la traduzione della lettera con cui Maja, durante l’udienza del 21
febbraio, ha rifiutato la proposta di patteggiamento del PM ungherese e ha
lanciato un messaggio di speranza e di lotta a noi tutt*
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Sì, ho qualcosa da dire, vorrei parlare con voi, che rappresentate lo Stato
ungherese e i suoi cittadini e siete in grado di giudicare a loro nome. Come a
tutte le persone che mi ascoltano. So di non essere sol* qui oggi e questo mi
riempie di profonda gratitudine.
Con la più profonda gratitudine. Non sono nemmeno l’unico imputato in questo
processo, la repressione ha una continuità opprimente. Ma quello che ho letto
oggi parla solo per me, tutto il resto mi è sembrato presuntuoso.
Una cosa voglio dire con certezza: non sarei qui oggi se non conoscessi i tanti
cuori ardenti di umanità e solidarietà.
Quindi eccomi qui, incatenat* e accusat* in un Paese per il quale io, in quanto
essere umano non binario, come Maja, non esisto.
È uno Stato che esclude apertamente le persone a causa della loro sessualità o
del loro genere.
Sono accusat* da uno Stato europeo perché sono antifascista. Nonostante questo,
ho deciso di parlare perché sono qui oggi perché otto mesi fa sono stata rapit*
con un atto di violazione della legge e sono stata estradat* qui dalla Germania
e sono stato estradat* qui – da un Paese la cui costituzione prometteva di
rispettare e proteggere la mia dignità, ma i cui presunti organi costituzionali
hanno scavalcato la più alta corte tedesca, sapendo che stavano agendo
illegalmente e che io ero minacciata qui.
Mi hanno portato in un Paese il cui impegno nei confronti dei diritti umani e
dei principi democratici stanno già svanendo sulla carta e le cui prigioni sono
piene di persone che che osano difendere l’autodeterminazione di tutti i popoli,
che osano promettere “Mai più fascismo”.
Sono consapevole di essere qui perché la mia nascita portava con sé una promessa
da cui sono cresciut*, è la promessa di essere umano. Non è cresciuta da sola:
mai completamente libera, privilegiata eppure piena di sofferenza, sempre alla
ricerca di come poterla realizzare, che ciò che nessun diavolo può compiere non
si ripeta mai più.
Solo l’uomo era ed è capace di questo uomo, per cui ancora oggi crea strutture
statali totalitarie, oppressive e distruttive, guidato dall’odio e dall’invidia,
fuggendo dall’imperfezione. L’uomo ha creato la Shoa e più atrocità di quante ne
dia il cielo con le sue stelle, pur non perdendo mai la speranza di un domani di
pace.
Sono accusat* da una Procura che è in grado di riconoscere l’odio fiammeggiante
dentro di me odio dentro di me, mentre vedono in quelle persone che esaltano gli
autori e i crimini dell’Olocausto come una minoranza da proteggere. È quindi
essenziale chiarire che la Procura sostiene che io abbia aggredito fisicamente
delle persone che che erano venute in questa città due anni fa per partecipare
al cosiddetto “Giornate dell’Onore”.
Si tratta di giornate di manifestazioni, passeggiate e concerti che servono come
incontro internazionale per gli di estremisti di destra, legittimati e promossi
da attori statali. Lì persone si riuniscono per venerare orgogliosamente e
apertamente le strade percorse un tempo dai fascisti tedeschi e ungheresi. I
fascisti tedeschi e ungheresi scelsero un tempo di fuggire dalle loro
responsabilità di assassini.
Festeggiano ai concerti di gruppi musicali profondamente razzisti e antisemiti
che incitano all’odio e alla violenza e donano denaro a reti terroristiche di
destra come “Blood and Honour”.
E ora siamo qui riuniti per preparare un processo in cui sono già stato
condannat*, in cui la detenzione è già l’esecuzione di una pena, come lo sono
stato io. Da otto mesi mi trovo di fronte a condizioni di detenzione che violano
le garanzie dell’Ungheria.
Non vengono rispettate né le “Regole penitenziarie europee” né le “Regole di
Nelson Mandela” delle Nazioni Unite. Ciò è avvenuto sottoponendomi a un
isolamento continuo e prolungato, in particolare a meno di 30 minuti di contatto
umano al giorno, per oltre 200 giorni. È una detenzione preventiva in cui non mi
è permesso studiare, non mi è permesso lavorare, non mi sono stati dati
abbastanza libri, non mi sono stati dati gli integratori vitaminici necessari o
le visite mediche tempestive, non c’è luce sufficiente e cibo sano. Sono stat*
consegnaté a un carcere che impone misure di sicurezza umilianti e degradanti
per le quali non c’è ancora alcuna giustificazione o spiegazione. Quando glielo
si chiede, restano in silenzio e così ho dovuto portare le manette anche in
cella, durante le visite ufficiali o le chiamate via Skype.
Ero ormai costrett* da diverse decine di persone a spogliarmi nudo davanti a
loro e non osavo ancora cambiarmi nella mia cella per la vergogna, visto che una
telecamera era appesa lì illegalmente da tre mesi. Le cimici e gli scarafaggi
rimangono ancora oggi, così come la luce dei controlli orari che mi tolgono il
sonno di notte. Sonno in cui sogno di poter finalmente stringere tra le braccia
la mia famiglia, persone al cui fianco non mi è stato permesso di elaborare il
lutto e che mi è consentito vedere dietro a lastre di plexiglass solo per due
ore al mese. Oggi sono qui e sto già subendo danni fisici e mentali. La mia
vista si sta affievolendo e il mio corpo è esausto, mentre il carcere mi
costringe a parlare da solo, vietandomi un contatto sufficiente con i compagni
di detenzione a causa della mia identità queer, il cui unico scopo è punirmi e
impedirmi di essere viv*.
Non è solo il sistema giudiziario ungherese a essere responsabile di tutto ciò,
ma anche, contrariamente alle loro affermazioni, ogni tribunale che ha
prolungato la mia detenzione. L’ultima volta l’hanno fatto per i prossimi 2,5
anni o fino alla fine di questo processo.
Ci sono ragioni per cui oggi sono seduto qui da sol* sul banco degli imputati,
perché la magistratura ungherese ha ormai perso ogni credibilità e altri
tribunali europei si rifiutano di collaborare. Questa è la cosa giusta da fare.
Questo processo contro di me avrebbe dovuto svolgersi anche in Germania, insieme
a tutti gli altri imputati, dove avrei potuto difendermi e prepararmi, e mi
aspetto che finalmente si ponga fine a tutto questo, che io possa prepararmi a
un processo su un piano di parità, senza essere privat* di alcuna opportunità di
autosviluppo, e che non venga più punito con una disumana detenzione in
isolamento, che lascia dietro di sé danni a lungo termine che stanno già
fiaccando le mie forze. Non sono solo le condizioni di detenzione a creare una
punizione da condannare, ma anche il fatto che non esiste un rischio oggettivo
di fuga o di recidiva. Non sono mai stato informato dalle autorità tedesche o
ungheresi del mandato di cattura emesso un mese prima del mio arresto, né ho mai
manifestato l’intenzione di sottrarmi a qualsiasi procedimento.
Vorrei precisare che dovrei difendermi da presunte prove che non mi è stato
permesso di vedere. Ancora oggi mi manca il materiale completo del fascicolo,
dovrei difendermi da un atto di accusa le cui montagne di documenti non sono
state tradotte per me, la maggior parte delle quali ho ricevuto solo in
ungherese. Avrei dovuto prepararmi da solo mentre i miei avvocati venivano
ripetutamente respinti al cancello della prigione, avvocati ai quali non è stato
permesso di mostrarmi i fascicoli e che ora si aspettano che io commenti un atto
d’accusa che consiste in mere ipotesi…! In cui non riesco a trovare una sola
parola che delinei la mia vita, la mia personalità e che sia basata su fatti, né
tanto meno che spieghi come nasce l’accusa di far parte di un’organizzazione
criminale. Vi aspettate davvero che io faccia mie queste accuse, che le confessi
e che poi mi faccia rinchiudere dietro le sbarre per il periodo della mia
giovinezza appena trascorso? Per 14 anni nel più severo regime carcerario, senza
possibilità di libertà vigilata, solo per risparmiarvi l’imbarazzo di veder
crollare le vostre fragili sentenze per mancanza di credibilità. Caro pubblico
ministero, sii onesto, speri che l’isolamento mi faccia morire di fame e
costringa a una sentenza senza processo.
Devo rendermi conto che sono stat* imprigionat* per 14 mesi, privat* della mia
vita precedente dall’11 dicembre 2023, privat* della possibilità di iniziare i
miei studi e continuare il mio lavoro, privato della mia famiglia, privato della
possibilità di sostenerla e di partecipare a una società alla quale voglio
contribuire. Privato del bisogno di svilupparmi e realizzarmi come essere umano.
Mi è stato tolto tutto questo con l’obiettivo di distruggermi come persona
politica. Ma ho ancora le parole che scrivo e parlo, e non smetterò di farlo
finché sarò e penserò.
Così ho scritto anche un atto di accusa, che racconta ciò che ho vissuto l’anno
scorso, mi ha aiutato a sopportare le ferite e si ritrova in parte in ciò che
presento qui. Taccio i suoi dettagli angoscianti, perché oggi e in questo
processo si tratta di molto più che di me stess*. Si tratta di capire in che
tipo di società vogliamo vivere e se possiamo accettare un’azione governativa
che contraddice i nostri valori morali. Non sono di casa in questo Paese, né
sono riuscito a imparare la sua lingua. Ma so cosa fa ai suoi cittadini, ho
sentito come tratta le persone che sono indifese alla sua mercé.
Sì, ho sentito le urla e i colpi provenienti dalle altre celle, i lamenti e i
pianti, la rabbia e la disperazione che col tempo perdono ogni melodia umana. Ho
visto sguardi smarriti e spaventati, ho sentito parole sprezzanti che nascono
quando le persone creano sistemi e luoghi in cui cercano di togliere il libero
arbitrio agli altri per creare e riempire il potere degli altri con parole
giudicanti e azioni punitive. Ho visto le carceri in Germania e in Ungheria e
vorrei dire che qui le persone vengono derubate della loro dignità,
indipendentemente dal fatto che siano sorvegliate o meno. Non posso avere la
presunzione di giudicare le persone che ho incontrato lì, so solo che qui la
società sta fallendo.
Consapevole di ciò, non posso negare i momenti in cui mi siedo alla scrivania
della mia cella e mi sembra impossibile tenere con me la bellezza del mondo, la
mia mente si limita a seguire la sofferenza dei compagni di prigionia,
interrotta dal pulsare delle mie stesse ferite.
Fugge dall’impotenza, si perde nel sentimento di impotenza, strappato dal mio
corpo, strappato da ieri e da domani, allora vedo solo ciò che al momento sembra
irraggiungibile, ma da cui germoglia per me l’umanità, l’eredità di cercare un
terreno comune con l’altro senza giudicare l’essere umano per il suo essere, il
suo corpo e le sue capacità, cercando di creare insieme qualcosa di valore senza
sfruttare e opprimere, sapendo perdonare i fallimenti senza tacere e infine
meravigliandosi di come da tutto questo germogli la fiducia in un domani
prossimo e pacifico.
Ma le lacrime di dolore si attenuano, al più tardi quando leggo le vostre
lettere, quando il giornale mi parla del mondo e apprendo che le loro utopie
sono preservate da persone. Persone che non sono abbandonate da valori morali
evidenti, che sono pronte a difenderli e a crearli, che non riescono a
distogliere lo sguardo da chi commette atrocità, che cercano l’imperfezione
umana, che non paralizza né abbruttisce, ma che invece vive in un tentativo di
creatività e solidarietà, cercando una via d’uscita dalla violenza guidata dal
potere, dall’avidità e dalla compiacenza. Ammiro ogni persona comune che cerca
di cogliere la complessità del nostro mondo e agisce dove sembra umanamente
possibile.
Voglio condividere il cammino con chi dubita, senza scambiare la propria
moralità e tenerezza con ingannevoli promesse di felicità individuale. Rispetto
tutti coloro che cercano di comprendere l’umanità come un tutt’uno e riescono a
non perdere di vista l’unicità di ogni persona, che è germogliata da ciò che ha
vissuto. Non è un’esistenza perfetta – no, falliamo, non possiamo sfuggire a noi
stessi o al mondo. Ma siamo in grado di agire, possiamo imparare a fidarci l’uno
dell’altro e di noi stessi, siamo in grado di crescere oltre noi stessi quando
cerchiamo di capire, comprendere e decidere a partire dall’impulso dell’umanità,
siamo in grado di aiutare dove c’è un incendio, dove manca la protezione e le
persone fuggono, possiamo condividere e stare dove il dolore e la sofferenza
sono più grandi, sapendo sempre che non siamo soli.
Ora nemmeno io riesco a evitare che gli occhi mi facciano sempre più spesso
male, che si chiudano per la stanchezza e che i sensi vengano meno.
Ma anche con le palpebre chiuse, non posso sfuggire al fatto che guerre, fame,
distruzione dell’ambiente e distribuzione ingiusta continuano a creare realtà
dolorose. In Europa infuria ancora una guerra di aggressione ed è impossibile
ignorare il fatto che il fascismo e i suoi seguaci stanno nuovamente mettendo
radici, sia in un continente apparentemente lontano che nel giardino vicino. I
desideri totalitari e gli intrecci autoritari nelle nostre società,
l’emarginazione e l’isolamento stanno vivendo una rinascita. Mi chiedo cosa
accadrebbe se ognuno si salvasse da solo. È così che sfuggiamo alla nostra
impotenza collettiva? Dove ci lasciamo guidare dalla paura e dalla disperazione?
Nelle ultime settimane ho sperimentato personalmente come queste possano
paralizzare la mia mente e il mio corpo, come mi abbiano spinto ad appendere le
mie speranze e ad allontanarmi dalla vita. Ma poi ho visto spuntare una tenera
pianta in un luogo dove per mesi non è caduto il sole, sapendo che l’inverno
sarebbe passato. Al suo fianco, ho dovuto ammettere a me stess* che – per quanto
infernale sia questo posto sulla terra – i fiori possono crescere lì, nelle
crepe del muro o nel mio essere.
Non ci vuole molto, ma prima la fiducia che il coraggio e la fiducia creano
grandi cose dalle piccole cose, perché da esse nasce la resilienza contro
l’attesa di giorni migliori, in cui sperimentiamo che ogni nostra azione
determina ciò che si ramifica nel nostro giardino davanti a noi e fiorisce nei
prossimi giorni di primavera.
Spesso non so come, so solo che è necessario osare e, se siamo onesti, sappiamo
che è possibile incontrando persone sconosciute come noi.
Oggi ho visto alcuni dei vostri volti, ho letto dei vostri sogni, ho potuto
condividere tempi di vita, sentirmi solidale, ammirarvi e invidiarvi mentre vi
battete per un’umanità che resiste, supera i confini arrugginiti del ferro
freddo della parola e del pensiero e si dispiega nell’essere queer, nell’amore,
nell’autoemancipazione femminista di un’umanità senza confini e in tutte le
lotte emancipatorie per la giustizia tra tutte le persone.
Ora la mia parola per oggi finirà presto, se necessario la contraddirò,
soprattutto se si continua a mettermi in catene, a rinchiudermi e a cercare di
spezzare la mia dignità con la forza. Perché sì, oggi si tratta ancora della
questione di una procedura costituzionale, della questione di come sia possibile
che io sia esposto a queste condizioni di detenzione e che si cerchi di punirmi
in questo modo umiliante e offensivo.
Tuttavia, non è nelle mie mani cambiare la situazione. Le autorità tedesche mi
hanno estradato e non hanno rispettato la loro massima corte, l’Ungheria sta
violando le garanzie e la legge europea, dimostrando ancora una volta come si
stia allontanando dai presunti valori democratici. Non mi resta che denunciare
tutto questo, oppormi e fare appello a tutti affinché facciano lo stesso. So che
l’esperienza di tutto questo non è solo mia e quindi spero che le mie parole
arrivino anche a tutti coloro che sono perseguitati e imprigionati per essersi
opposti all’estremismo di destra, al fascismo, al patriarcato, allo sfruttamento
della natura e delle persone, alla violenza strutturale e razzista e alla
repressione, per aver creato alternative e per l’emancipazione, l’esistenza
queer e una vita dignitosa per tutti. Non ci vuole molto, ma prima la fiducia
che il coraggio e la fiducia creano grandi cose dalle piccole cose, perché da
esse nasce la resilienza contro l’attesa di giorni migliori, in cui
sperimentiamo che ogni nostra azione determina ciò che si ramifica nel nostro
giardino davanti a noi e fiorisce nei prossimi giorni di primavera.
E a tutti gli altri, voglio esprimere la mia sincera gratitudine per aver
trovato il tempo di ascoltarmi.
Maja