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Un fuoco al giorno …
L’aria rimane densa ed elettrica nel Cpr di corso Brunelleschi: venerdì durante il temporale un ragazzo ha approfittato della scarsa attenzione di charlie e delle forze dell’ordine per saltare sbarre e muri e conquistare la libertà.   Per quanto i media ufficiali avvolgano in un’aurea di eccezionalità le proteste e gli incendi nel centro, bruciare materassi e i pochi suppellettili rimasti è ormai una pratica consueta, per richiamare l’attenzione e pretendere una risoluzione ai tanti problemi che ci sono dentro, solo in ultimo la mancanza del barbiere. Nei giorni scorsi invece i reclusi ci hanno raccontato di come mancassero dosi di shampoo sufficienti per lavarsi e acqua fresca per dissetarsi. Gli incendi servono anche per comunicare direttamente con fuori, durante gli ultimi presidi infatti è successo più volte di vedere innalzarsi una colonna di fumo che ha fatto scaldare gli animi dei solidali accorsi e rilanciare le grida di sostegno. Il rogo si è ripetuto anche questo sabato quando le voci, la musica e il clangore delle battiture di uno sparuto presidio fuori dal centro, allestito nonostante la pioggia, hanno raggiunto le orecchie dei reclusi. Ieri ci è arrivata la notizia che numerosi reclusi hanno gettato il cibo addosso agli operatori, forti del fatto di aver anche ricevuto il giorno prima una grossa mole di pacchi alimentari, raccolti a seguito di un appello lanciato per l’occasione da alcuni dei tanti solidali che si sono mobilitati dopo la morte di Faisal. Lontano da ogni forma di pietismo e assistenza umanitaria questo episodio sottolinea come una lotta possa acquisire maggiore forza nella congiuntura di sforzi tra dentro e fuori: rigettare il cibo della Sodexo senza perdere le energie e mantenendosi lucidi, ossia senza il ricatto della fame, e con la possibilità in prospettiva di organizzarlo per più giorni e in modo duraturo. Continuando in questa carrellata attraverso il fine settimana, da sabato sera fino a tutto domenica un ragazzo è rimasto arrampicato sopra il tetto della sezione per resistere a una deportazione. In isolamento è trattenuto un ragazzo con forti problemi mentali, preoccupando molto altri reclusi che lo hanno visto senza vestiti.
Ancora, ancora e ancora
Sembra di essere tornati nel lontano 2011, quando nella canicola estiva si erano propagate fughe e rivolte attraverso i Centri di tutta la penisola. Forse non per estensione e quantità, ma l’intensità di quanto sta continuando ad accadere nel Cpr di Torino, senza contare la fuga di massa a Ponte Galeria di inizio luglio, ricorda un furore che gli sgherri di stato stentano a spegnere e che anche ieri sera è tornato a farsi sentire. Ancora un tentativo di fuga, come qualche giorno fa, è avvenuto verso le 19:00 e questa volta non ha coinvolto solo alcuni ragazzi dell’area gialla ma anche qualcuno dalla rossa. I fuggitivi sono stati riacciuffati, la polizia è entrata nell’area gialla e ha elargito ampie manganellate rompendo il braccio a un ragazzo e ferendone un’altro alla caviglia. Tuttavia proprio dall’area rossa un ragazzo è riuscito a conquistare la libertà, le guardie sembra che se ne siano accorte questa mattina dopo aver fatto la conta. Sempre in mattinata hanno poi svolto diverse perquisizioni alla ricerca di corde e altro materiale funzionale alla fuga.  Sembra che in queste settimane i reclusi del Cpr stiano rispolverando tutto l’armamentario di strumenti di lotta a loro disposizione. Non solo incendi e fughe, ma due giorni fa un paio di ragazzi sono saliti sul tetto della loro sezione per protestare contro la mancanza di cure verso un ragazzo che si sentiva male e, per uno dei due, richiedere una risposta alla domanda di rimpatrio volontario. L’estate è ancora lunga, il Cpr è sempre là e la temperatura non sembra destinata a scendere. La sfida per chi sta fuori e cerca un modo di sostenere le lotte dei reclusi, è sempre aperta. Qui di seguito riportiamo i video della tentata fuga di ieri: Tentata fuga pt.1 Tentata fuga pt.2  AGGIORNAMENTO: Passato il momento di tensione e dopo due chiacchiere coi reclusi più a bocce ferme abbiamo ricevuto notizie più precise in merito al tentativo di fuga. I ragazzi che sono riusciti a scavalcare le mura sono due, tuttavia sono stati riacciuffati quasi subito. Uno è stato riportato al Cpr mentre l’altro è stato tradotto alle Vallette, probabilmente per una resistenza con la polizia nel momento in cui l’hanno ripreso.
Ancora una volta
Il muro d’acqua che nel fine settimana è piombato su Torino, a uniformare il grigiore di questa città tra cielo e asfalto, non ha spento i bollenti spiriti di chi è rinchiuso nel Cpr di corso Brunelleschi e da giorni si sta battendo per mandare un segnale: non si è disposti a soccombere senza colpo ferire. Sulla spinta delle rivolte che sono avvenute dopo la morte di Faisal, nella notte tra domenica e lunedì i reclusi dell’area gialla hanno tentato in gruppo la fuga. Un ragazzo è riuscito a conquistare la libertà senza essere ripreso, a lui va il nostro saluto con la speranza che possa continuare a lottare nel cammino tortuoso attraverso la fortezza europea, mentre tutti gli altri sono stati riacciuffati, pestati e riportati in sezione. Purtroppo in questi giorni ci è giunta anche l’amara notizia che Djallo, il ragazzo che aveva testimoniato in merito al decesso, è stato trasferito a Roma nel Cpr di Ponte Galerie insieme ad altri 13 reclusi. Anche le proteste individuali non sono mancate in questi ultimi giorni. L’assenza di cure adeguate sbandierata oramai in lungo e in largo è solo il picco più alto di una serie di condizioni che stritolano l’esistenza dei reclusi. Già alcune settimane fa ci era arrivata la notizia che ai reclusi veniva somministrato solo un litro di acqua potabile al giorno mentre dai rubinetti usciva solo acqua bollente. Non è un caso infatti che da venerdì 12 luglio per tre giorni una buona parte dei detenuti del centro abbia portato avanti uno sciopero della fame, per protestare tra le altre cose contro il cibo immangiabile che gli viene distribuito. La pioggia quindi è piombata su Torino e l’acqua si è insinuata attraverso le strutture fatiscenti del Cpr e ha allagato le stanze dell’area blu. A riportare la notizia anche alcuni rinomati media locali, che però si guardano bene invece dal tuffarsi nel pantano delle contraddizioni, dal parlare di tentativi parzialmente riusciti di evasione, ovvero dal diffondere quelle notizie pericolose (per l’indicazione che danno) e politicamente poco spendibili, sopratutto in questa parentesi di ritorno sulle scene dell’affair Cpr e il rinnovato interesse di alcuni “buoni” politici sensibili alla questione. Purtroppo però non si possono neanche chiudere gli occhi sulle difficoltà che riscontrano tutti quei solidali disposti a saltare a pié pari il campo della mera rappresentazione (o dei tentativi di riformare queste strutture o dedicarsi alla cura di alcuni casi disperati), per provare piuttosto ad abbattere le mura o sostenere chi è disposto, da dentro, a farlo. I presidi davanti al Cpr sono molto importanti, creano una continuità e sono forse anche ciò che fa sentire dentro la possibilità di reagire ai soprusi senza che questi gesti cadano nel vuoto, ma da soli non bastano. La frustrazione nel vedere alcuni ragazzi arrampicati su un tetto a gridare aiuto mentre dentro la polizia reprime con le botte i tentativi di protesta, forse è direttamente collegata non solo alla mancanza di idee e azioni da mettere in campo, ma anche alla mancanza di una prospettiva a medio termine nella quale inquadrare la costruzione di un rapporto di forza reale. Sapere che oggi non si è in grado di fare granché per rintuzzare la violenza e l’arroganza della polizia è un problema, ma ancora peggio è il rischio di accorgersi che non si è in grado di pensare e mettere in pratica i vari passi che portano al superamento di questa impasse. Non è cosa facile, anche partendo dal livello di controllo e repressione che evidentemente si scatena non appena si provi ad agire concretamente in questa direzione. Un percorso che si compone di tanti aspetti, a volte anche noiosi e ripetitivi come informare le persone che abitano nei quartieri dove viviamo di quello che accade dentro, come portare avanti ostinatamente presidi, volantinaggi e saluti anche quando dentro non succede niente e vige la risacca, come provare a mantenere alta l’attenzione con iniziative di vario genere in grado di non far dimenticare a nessuno, a partire da noi stessi, chi sono i responsabili di questa guerra spietata. Un percorso il cui obiettivo minimo riemerge proprio dai fatti di questi giorni: come arrivare preparati alla prossima rivolta, piuttosto che rincorrerla con fatica? Eppure le rivolte dei reclusi, che riaffiorano attraverso qualsiasi bufera salviniana o di qualche altro boia di Stato, sono lì a ricordarci l’urgenza di questa sfida. Non solo perché l’apporto di chi lotta fuori potrebbe fare una piccola differenza, ma perché c’è da domandarsi se davanti alla nostra coscienza, alla nostra voglia di essere un pezzo effettivo di questo scontro di classe, vogliamo privarci di questa occasione. 
Senza espiazione
Nel Cpr torinese c’è rabbia, un sentimento condiviso e profondo che ha trovato sfogo nella rivolta degli ultimi giorni, soprattutto quando fuori dalle mura gruppi di solidali hanno fatto sentire ai reclusi di non essere soli. Ma la tensione continua a essere più che strisciante ed è aizzata dagli effetti della repressione della polizia entrata per sedare gli animi: un ragazzo ha il braccio rotto, un altro la costola, uno è stato arrestato perché considerato tra i più riottosi. Dopo la confusione e le manganellate si iniziano a mettere insieme i pezzi di racconto delle ultime 72 ore, qualcuno dice essere possibile che il ragazzo morto non sia lo stesso di quello che ha subìto abusi, una “verità” che gira già da un po’ tramite svariati canali d’informazione. Ma quale verità? I reclusi hanno messo insieme pezzi di ciò che hanno potuto vedere dalle loro gabbie e questo vale molto più di ogni fatto certificato, è il frutto della loro posizione, di ciò che sanno che può avvenire. La scintilla era grossa in quello che pensavano fosse successo, il fatto che le scintille siano più di una non deve trarre in inganno, la differenza è sostanziale solo nelle cronache locali, nelle carte giudiziarie, o nello sguardo di chi vede quel luogo dall’alto come fosse una planimetria; nei compartimenti stagni dove sono chiusi i detenuti invece la verità prende corpo e diventa vita, non è solo l’occhio a essere diverso ma è la realtà del vissuto a irrompere, senza verificare che sia sovrapponibile con ciò che viene sentenziato fuori. A esplodere puntualmente in una prigione come il Cpr sono tensioni profonde, non nessi causali. La visione sezionata della verità accertata è non solo meno turbolenta del magma del vissuto che messo insieme accende una rivolta, ma mostra la prospettiva pacificatrice delle procedure di giustizia: dividere i casi, cercare le responsabilità, proporre rimedi possibili nella detenzione amministrativa, oscurare il punto considerato osceno nella faccenda, ovvero la lotta per la libertà dentro alle prigioni per senza-documenti. E così nei racconti dei giornali e nella loro bulimia screanzata gli ultimi giorni al Cpr sono prima una tragedia esasperata, poi un problema di verità da ricostruire con l’happy ending di istituzioni solerti che stabiliranno cos’è accaduto. La rivolta che segue casi di gravità innegabile come uno stupro e una morte non viene criminalizzata direttamente come sempre avviene per mano dei pennivendoli, ma presa come effetto prevedibile di un grosso malfunzionamento, da lasciare in secondo piano alle risoluzioni opportune della polizia.  Il fare predatorio dei giornalisti di qualunque risma è ben chiaro anche ai reclusi che vi hanno avuto a che fare, i quali raccontano di come le loro conversazioni siano state registrate e utilizzate senza permesso proprio dalla testata che negli ultimi giorni si mostrava più benevola. In pratica dentro al Cpr hanno imparato una grande lezione di deontologia giornalistica e c’è chi dice che con “quelli” non parlerà più.  Se hanno annusato il vero odore della carta stampata, non da meno gli è sfuggito quello intenso della delegazione di politici che quest’oggi è entrata in c.so Brunelleschi. Di buon mattino e col vestito meno buono, che sennò pare brutto entrare in una struttura come quella in haute couture, due parlamentari del Partito Democratico, Gribaudo e Rizzo Nervo, e un consigliere regionale di Liberi e Uguali, Grimaldi, hanno fatto un sopralluogo al Cpr, o per meglio dire – come sostengono i reclusi – hanno fatto visita alla direttrice per parlare di fondi e finanziamenti. Del resto di che altro potrebbero parlare i figli del partito che i lager per immigrati li ha istituiti? Rimasta al varco invece, senza pass d’ingresso, la delegazione di LasciateCIEntrare, Campagna istituzionale di testimonianza di ciò che accade nei Cpr, che lamenta di come i parlamentari non abbiano svolto bene i compiti e che non abbiano visitato tutto il centro. Verrebbe da proporre loro la candidatura in parlamento come soluzione a cotanta delusione, ma è noto che è un’aspirazione mancata di molti membri. LasciateCIEntrare non è un gruppo sconosciuto ai nemici di espulsioni e frontiere, né loro, né le loro proposte. Campagna fondata nel 2011 con lo scopo di testimoniare ciò che accadeva negli allora Cie, i suoi membri danno il meglio in un documento politico dell’ottobre 2013 e pubblicato nell’opuscolo “Mai più CIE” in cui la classica critica democratica alla detenzione amministrativa perché non abbastanza umana viene accompagnata da un intero capitolo di proposte, intitolato “Per una diversa disciplina delle espulsioni”, in cui si dice che “non è sufficiente smantellare il sistema degli attuali CIE né la questione si può ridurre ad un loro miglioramento“. Proprio per questo la Campagna propone tra le altre cose di “razionalizzare le tipologie espulsive“, “incentivare forme di rimpatrio/rientro volontario“, prevedere “identificazione e allontanamento delle persone pericolose” studiando “modalità di identificazione e predisposizione dei documenti necessari all’accompagnamento durante l’esecuzione della pena (in carcere o nelle differenti forme di espiazione)“. Non male come programmino, eh? Una Campagna che punta sulla sensibilità che può scaturire dal motto “chiudere i centri”, per poi provvedere a strutturare un sistema più fluido di espulsioni e differenziazione tra i reclusi. Tuttavia non sono solo ideatori di sofisticate politiche repressive, ma negli anni si sono dati anche alla fantascienza sostenendo che molti centri erano stati chiusi intorno al 2013 grazie al loro lavoro di testimonianza e a un miglior piano dei rimpatri nel periodo in cui gli amici loro erano al governo. Peccato che fossero stati i reclusi con le loro rivolte a rendere inagibili la maggior parte dei centri italiani (Crotone, Milano, Bologna, Modena, Brindisi, Lamezia Terme, Trapani, quelli chiusi del tutto per anni). Questi teorici dei rimpatri si arrogano dunque anche grossi meriti rapinandoli alla memoria della sovversione, da conato di vomito. A Torino raramente si è sentito parlare di loro, sono usciti alla ribalta solo ora che le cronache hanno dato visibilità al Cpr, ma come si diceva non sono noti solo per i loro programmi sulle espulsioni, ma perché hanno un metodo piuttosto conosciuto a tanti compagni e compagne che negli anni hanno lottato contro i centri: prendono dei contatti all’interno, si interessano dei casi più disperati e vi costruiscono una narrazione rispetto ai diritti umani mancati, creando separazione tra chi spera di uscire perché portatore di una storia più convincente e chi è un semplice recluso. Non ci si stupisca, è la retorica dei diritti umani, che è atta a stimolare il pietismo per le situazioni al limite, che come altra faccia della medaglia istiga l’avversione verso chi non ha sofferenze extra-ordinarie e gli leva da sotto ai piedi la legittimità della rivolta. La rivolta e l’anelito di libertà non hanno bisogno del loro permesso o di canali di espiazione, irrompono. Questo è il percorso che negli anni è stato seguito da reclusi, complici e solidali, questo il percorso che continueremo a seguire nonostante il becerume dei politicanti e le retoriche della pietà. Sabato 13 luglio, ore 19:30, sotto alle mura per sostenere ciò che conta.
Di morte naturale
Morte naturale. Più che un’osservazione medica, questa valutazione iniziale del medico legale ha il sapore acre ed artefatto della sentenza. Sahid da quello che raccontano i detenuti del Cpr torinese era dello Sri Lanka, cingalese, con problemi psichici che rendevano la sua detenzione ancora più insopportabile. Se ne lamentava, ma nessuno riusciva a capire cosa dicesse di preciso perché non parlava nessuna lingua che gli altri conoscessero; vedevano che veniva spostato dall’amministrazione del centro da un’area all’altra con continui sfottò: “occupatevene voi di questo qui!”. Alla mercé. Tutti dentro sapevano che le sue condizioni fisiche non erano adatte alla detenzione, non perché vi sia qualcuno più idoneo, ma perché formalmente anche in questi gironi d’inferno sono stabilite delle soglie di sopportabilità rispetto alle quali alcuni individui non dovrebbero finirci dentro, o al massimo dovrebbero essere liberati. Questo è avvenuto pochissime volte negli ultimi anni e persone allo stremo sono state tenute dentro, come Tomi qualche mese fa. Così Sahid, lasciato a sbavare e sbraitare, con 40° e un solo litro di acqua potabile, data calda, la razione che spetta giornalmente nonostante la canicola. Al trattamento dell’afflizione detentiva si è poi aggiunta la violenza da parte di due detenuti, l’hanno stuprato e inferto ferite tali che ci ha lasciato la pelle. La sua morte è tutt’altro che naturale, e non solo per la violenza sessuale e le sue conseguenze, ma perché dopo che è avvenuta, per più di dieci giorni, Sahid è stato lasciato a marcire in isolamento, marcire letteralmente: da quello che si sa è morto il 7 luglio di sera, se ne sono accorti solo alla mattina di ieri. Una persona stuprata e ferita non è stata portata all’ospedale ma in isolamento, lasciata senza cure, come da norma, in un centro in cui la polizia non fa entrare neppure le ambulanze presentando come scusa la presenza di un infermieria, “l’ospedaletto”, dove tutto si cura magicamente con un cocktail di paracetamolo e psicofarmaci. Gli altri reclusi nei giorni dopo il fatto, si sono scagliati contro gli aggressori di Sahid, uno dei quali è stato successivamente deportato, l’altro arrestato,  e hanno formalmente segnalato quello che era accaduto alla Procura, anche se da ieri nelle alte stanze di tribunali e polizia fanno tutti spallucce dicendo di non aver saputo quanto stava accadendo. Alla notizia della morte i detenuti hanno iniziato una serie di proteste che ha coinvolto tutti dentro al centro con battiture, rifiuto dei cibo e casino per tutta la giornata di ieri. Alla sera è arrivato in c.so Brunelleschi un folto gruppo di solidali per inneggiare insieme alla libertà e andare oltre la divisione delle mura e del cordone di celere e Digos. Da subito la rabbia dei ragazzi dentro si è fatta sentire, colonne di fumo hanno iniziato ad alzarsi, probabilmente hanno appiccato il fuoco a ciò che avevano nelle stanze. Poco dopo, anche a chi era fuori, era chiaro che cosa stesse avvenendo nel centro torinese: la celere all’interno della struttura stava lanciando lacrimogeni e utilizzando l’idrante per reprimere la rivolta. I colleghi in antisommossa fuori, non da meno, durante tutto il presidio piuttosto nervosi, hanno allora caricato più volte i solidali mentre erano intenti a raggiungere la strada per un blocco del traffico. Non sono riusciti però a disperdere il gruppo, nuovamente tornato sotto al centro per continuare a sostenere le proteste dei rinchiusi. Questa è una storia che non deve passare come una triste cronaca, non c’è nulla di naturale in questa morte perché Sahid è stato lasciato a morire intenzionalmente e non è la prima volta, avvenne anche nel 2008 quando un ragazzo venne lasciato a crepare di polmonite nel suo letto. Due morti in dieci anni, lasciati morire perché non curati. Ma per quel posto non c’è nessuna cura possibile, quel posto dev’essere distrutto e stasera è necessario tornare là sotto per ribadirlo. Ore 20:00 presidio sotto al lager di Torino.
Inseguendo la chimera pt. 6
  NOTE A PARTIRE DALL’OPERAZIONE SCINTILLA Dopo mesi concitati, nel tentativo di dare una degna risposta allo sgombero dell’Asilo e all’arresto di sei compagni e compagne, nel tentativo di mantenere viva la voglia di lottare in questa città, ci prendiamo ora il tempo di fare alcuni ragionamenti su questo teorema inquisitorio partorito dalla Questura, fatto proprio dalla Procura e avvallato da una GIP. Un teorema che per il momento non ha retto il primo impatto con il Tribunale del Riesame, dopo tre mesi sono infatti usciti dal carcere cinque compagni, ma che costringe ancora Silvia tra quelle mura e in condizioni di detenzione particolarmente afflittive. A indagini ancora aperte vale la pena spendere sopra queste carte qualche parola, tra le altre cose perché contiene alcune indicazioni che sono il segno dei tempi su come costringere certi anarchici al silenzio, seppur non del tutto nuove. Già quindici anni fa infatti si poteva leggere in un libretto, dal titolo ‘L’anarchismo al bando’, di come le strategie repressive mirassero a “togliere agli anarchici ogni possibilità di agire in gruppi di più persone articolando anche alla luce del sole il loro intervento, proprio in quanto finalizzato all’insurrezione generalizzata”. Questo lavoro di analisi uscirà a puntate, una alla settimana, che si concentreranno su alcune specificità dell’operazione Scintilla e della lotta contro i Centri di detenzione per immigrati. A scriverle sono alcuni compagni, alcuni imputati e indagati in quest’inchiesta, altri no, che nel corso degli anni si sono battuti contro la detenzione amministrativa. La pienezza  Le lotte reali sono un fatto sociale, e quindi anche la lotta contro la reclusione amministrativa dei senza-documenti non è una sfida a singolar tenzone contro lo Stato lanciata da un manipolo di sovversivi. Come tutte le lotte reali procede per alti e bassi, è fatta di iniziative individuali e collettive, dentro e fuori i Centri, ed è per questo che il tentativo di ricondurre il tutto al disegno criminoso di un’associazione sovversiva non può che risultare una forzatura. Le raffinate e alquanto noiose menti della Questura non hanno saputo fare di meglio che descrivere un fantomatico “progetto criminoso” composto di ancora più improbabili fasi: dall’epoca dei proclami incendiari di cui I Cieli bruciano sarebbe la punta di diamante nonché il vero “documento programmatico” si è passati alle azioni violente e infine si è ripiegati sull’istigazione alle rivolte dei reclusi. Il linguaggio farraginoso della Procura non può minimamente sfiorare la realtà di una lotta complessa e variegata, tutt’altro che consequenziale, sia nelle persone che vi hanno partecipato sia nelle azioni e iniziative messe in campo negli anni. Una lotta che ha avuto il suo picco distruttivo a cavallo tra 2011 e 2012, quando la capienza dei centri in tutta la penisola era ai minimi storici e si iniziava a ipotizzare la loro reale scomparsa, cosa che la controparte non ha minimamente considerato, a riprova dei reali intenti che persegue e della narrazione che le fa comodo utilizzare. Il linguaggio della Procura, come in tante altre inchieste anche molto recenti, non solo piega la descrizione di una lotta ai propri scopi ma anche quella del gruppo stesso di compagni che l’hanno portata avanti: “l’azione degli associati, rimasta celata dietro la mera attività contestativa e appunto sociale della matrice di appartenenza, si è di fatto sviluppata ed evoluta ponendosi a metà strada tra l’insurrezionalismo sociale e quello più propriamente lottarmatista” – “azione celata dietro attività pubbliche e cosiddette sociali”. I richiami alla distruzione e al fuoco nella lotta contro la reclusione amministrativa risalgono alla notte dei tempi, quando i Centri si chiamavano CPT e la maggior parte degli indagati non era neanche maggiorenne, e il significato di certe espressioni è già stato spiegato in tempi non sospetti. Descrivere gli accusati come qualcosa di diverso dal movimento per come era fino ad allora non ha quindi alcun senso. Ancor meno ciarlare di famigerati “salti di qualità” e quant’altro. Anche l’accusa di essere istigatori delle rivolte nei Centri di reclusione per senza-documenti non è certo una novità, e a riguardo sono già stati scritti fiumi di parole. Senza troppa fantasia nelle carte dell’operazione Scintilla si descrivono i contatti con i reclusi come “incessante attività di istigazione diretta ad accendere e alimentare le proteste”. Un tocco di creatività nella supposta svolta verso l’istigazione lo si ritrova quando i compagni vengono accusati di aver scelto di “elaborare nuove metodologie e strategie per riprendere in maggior sicurezza il proprio programma criminoso” a partire da dicembre 2016, dopo che ad alcuni era stato prelevato il DNA. Gli arresti con conseguente prelievo, descritti in un recente articolo come un “escamotage” architettato apposta, sembravano già all’epoca pretestuosi e ora, sotto questa nuova luce, appaiono decisamente inquietanti. Macchinazioni questurine e tribunalizie a parte, una cosa va detta senza mezzi termini a proposito dei rapporti tra solidali e reclusi: la loro ricostruzione è una grossolana e insolente falsificazione storica. Grossolana perché nel solo periodo preso in esame nelle carte e quindi da gennaio 2015 (supposta nascita dell’associazione sovversiva) a dicembre 2016 (supposto cambio di strategia post-prelievo DNA) nel Centro di Torino ci sono state almeno cinque rivolte accompagnate dall’incendio di pezzi significativi della struttura. Della maggior parte di queste rivolte, in quanto non funzionali alla ricostruzione degli inquirenti, non c’è menzione nell’ordinanza. Insolente perché l’idea che i reclusi dei Centri siano pedine di una strategia da muovere con saggezza e prudenza come in una partita a dama può probabilmente tornare utile al polemismo di certi anarchici e agli inquirenti alla ricerca di prove delle loro assurde tesi, ma oltre che falsa è un insulto a tutti quei compagni che si sono battuti apertamente e con costanza contro la reclusione amministrativa in questi anni, rispettando le scelte dei reclusi dei Centri che sono sempre stati gli unici a decidere se, quando e come rivoltarsi e mettendo in gioco la propria libertà non certo per calcoli politici o tornaconti personali. I reclusi dei Centri si sono sempre ribellati e sempre si ribelleranno, con o senza la presenza di solidali all’esterno. A chi fuori ha cercato di agire è sempre toccato scegliere se portare avanti un piano di intervento prettamente individuale e separato, concentrandosi in modo assoluto sull’azione diretta e sul tipo di pratica messo in campo, come se in sé e per sé potesse bastare a portare ai ferri corti col mondo della reclusione amministrativa; oppure affiancare l’intervento individuale a un più ampio tentativo di coordinazione con i reclusi, a costo di lasciare al nemico una quantità infinita di comunicazioni telefoniche intercettate, testi di analisi, racconti e discussioni. Le tante iniziative che gli inquirenti descrivono come “messaggi cartacei inseriti in palline da tennis lanciate all’interno del locale CPR al fine di instaurare preventivi contatti con gli stranieri ivi trattenuti”, “fomentare i trattenuti riferendo notizie sulla distruzione di altri CPR”, “mettere in contatto gli extracomunitari trattenuti nei vari CIE” e anche aver “fraudolentemente introdotto nel locale CPR fiammiferi ed accendini” sono patrimonio storico di questa lotta al pari dell’iniziativa autonoma, e anche per questo vanno difese. Ma nelle carte dell’operazione Scintilla oltre all’istigazione c’è di più, e questa sembra un’assoluta novità: le attenzioni degli inquirenti si sono concentrate anche su quei compagni che “si attivavano per fornire un avvocato e generi di prima necessità in carcere” agli arrestati dopo una rivolta. Sovversivi che si occupano di solidarietà spicciola e materiale, roba da far rizzare i capelli a chi sentenziava che i rivoluzionari possono occuparsi d’altro, dato che la società borghese offre sufficienti avvocati assistenti sociali o preti che si occupino dell’aiuto tecnico/legale. Ma soprattutto una novità che evidenzia quanto i tempi siano assai cupi se l’assistenza materiale nei confronti di un recluso arrestato diventa oggetto di un’inchiesta per associazione sovversiva. Vorremmo tutti dedicarci esclusivamente ad attività più entusiasmanti e avvincenti, ma se la rivoluzione o anche solo la distruzione di un pezzetto di questo mondo vuole essere condivisa direttamente (e non solo platonicamente) con degli sfruttati, allora occorre dedicarsi a tutta una serie di aspetti nelle relazioni umane e di fiducia che sono complementari, e a volte anche un trampolino, per la condivisione di momenti di rivolta più allargati. Una cura dei rapporti che chi ci governa, a quanto pare, sta cercando di recidere, attaccando la pienezza e la pluralità di una lotta intera. Se vi siete persi le puntate precedenti di Inseguendo la chimera potete leggerle cliccando sotto. Attorno a un perché Silenzi Segugi e alchimisti [In questa puntata ci siamo accorti di aver scritto un’imprecisione a cui abbiamo posto rimedio. L’errata corrige riguarda un passaggio nel quale si afferma che delle microspie erano state messe in una abitazione privata dove aveva vissuto per un periodo un compagno imputato. In realtà, come modificato nel testo, quel compagno non ci ha mai vissuto e si trattava di una mera supposizione della Digos, mostrando quindi quanto sia facile essere autorizzati a ficcare il naso negli affari di persone non solo non indagate ma anche non così centrali nelle reti di relazioni e rapporti dei compagni e delle compagne imputate. Senza contare che le microspie (per non sbagliare) sono state lasciate in casa pronte ad essere attivate all’occorrenza, anche se la Digos aveva espressamente richiesto all’epoca di stoppare l’intercettazione perché non era stato rilevato materiale utile in senso probatorio.] Nelle strade, oltre le mura Gli strumenti di lotta al vaglio
Il Capo, il servo, lo schiavo e le amanti
Lo sciopero di qualche giorno fa dei lavoratori Domino’s, il primo da quando la pizza americana è sbarcata sulla penisola, ha saputo mostrare un quadro dalle tinte forti e ben definite. I personaggi si sono susseguiti su un teatro di posa apparecchiato dalla lotta, un dramma consumato in un piano sequenza tra il grottesco e il fin troppo serio. Un quadro chiaro ma tutt’altro che immune dalla complessità che distingue il mondo del lavoro e che viene bene a galla quando è scosso dai fremiti, seppur a malapena accennati, del conflitto, di chi si batte per sé e per i propri bisogni senza più sottostare ai ritmi e ai limiti imposti dall’azienda. Qui non si vuole raccontare in modo didascalico gli avvenimenti di sabato 29 e domenica 30, tutto sommato nulla di eccezionale e ben riportati dagli strumenti di comunicazione autonomi di questi lavoratori (per un riassunto dei comunicati, anche qualora non aveste facebook, ecco qua). Quanto piuttosto giocare con gli stessi personaggi che lo sciopero ha privato di ogni maschera e provare a tratteggiarne alcune caratteristiche che sono venute a galla, sotto l’occhio scrutatore di un compagno che partecipa a questa lotta. Nulla di assoluto o universale, ma comportamenti emersi dallo scontro diretto, dalle battutine sussurrate a margine o nei cori lanciati per strada, dalle assemblee e dagli sfoghi, dai tavoli di trattativa come dai tavolini dei bar un attimo prima e un attimo dopo, a sciogliere la tensione accumulata. Caratteristiche e comportamenti dei vari personaggi che potrebbero di nuovo ripresentarsi e dai quali si può trarre qualche indicazione utile per il futuro. Il Capo Il Capo ha mille nomi: CEO, Head of Operation, Amministratore Delegato, General Manager, padrone, ecc. Il Capo ha mille facce e sa bene quale scegliere all’occorrenza: severa, amichevole, falsamente interessata, realmente interessata, bramosa, preoccupata, ecc. Il Capo davanti a un imprevisto causato da malumori che esplodono dall’interno dell’azienda, quando inizia a perdere soldi, inizia anche a perdere la faccia e non sempre sa quale usare e come usarla: prima si incazza, poi ricatta, tenta di portare a casa il massimo risultato col minimo sforzo, poi ci ripensa, poi si rassegna, poi arriva e ti ascolta facendoti credere che anche tu…ultima ruota del carro, vali! Il Capo fa promesse che può mantenere perché ha dalla sua l’economia, il calcolo, ma le richieste spesso sono anti-economiche, sopratutto se si vuole il meglio non solo per sé ma per tutte le ultime-ruote-del-carro. Allora il Capo cerca di piegare le richieste, nate dalle loro esigenze reali e materiali, ai suoi interessi ossia quelli dell’azienda. Fa credere loro che ogni cosa concessa è per loro ma perché è per l’azienda, per farla funzionare meglio … è per l’azienda ma perché è per loro, per valorizzarli a pieno. Infatti il Capo sa come funziona la macchina ma non interessa sapere com’è il lavoro. Così concederà loro sempre il minimo, cercherà sempre di dividere le ultime-ruote-del-carro accontentandone alcune e temporeggiando con altre … in vista di una crescita futura per tutti, ossia per chi dimostrerà di meritarlo. Il Capo infine, prima di andarsene e prima di tornare ai suoi calcoli per capire il modo migliore per evitare il patatràc, ti ricorda una cosa molto importante: “Tu, schiavo, ogni volta che lavori e indossi quella divisa rappresenti il mio prodotto … per cui, sorridi!” Lo schiavo Lo schiavo la beve, la beve, la beve … e poi non beve più. Lo schiavo non ha nulla se non le sue catene, non può disporre liberamente delle proprie azioni: corre assetato quando c’è un briciolo di lavoro, se ne va a calci in culo quando il lavoro finisce in anticipo … e nel tempo libero pensa a come farà senza di esso. Lo schiavo la beve, la beve, la beve, ma quando non beve più ha un solo obiettivo: inceppare la macchina e nel tempo libero pensare a tutto quello che potrebbe fare senza di essa. Però il Capo fa le sue promesse e la vita è agra, così si viene a compromessi e si accetta quel che si può. Ma quel che si può dipende anche dalla forza che si sprigiona, dal coraggio di osare, dalla voglia di usare tutto il tempo a disposizione per incontrare nuovi schiavi e invitarli a guardare la macchina con nuovi occhi, ostili, a dare sfogo a questa ostilità. Lo schiavo fa parlare i suoi bisogni e i suoi desideri, ma… attenzione, perché basta poco che sotto le lusinghe del padrone e la sua lingua adulatrice e biforcuta la forza che unisce i bisogni degli schiavi si trasformi in una nuova debolezza: quella di pensare solo a se stessi. Quando il Capo restringe l’offerta può costringere gli schiavi a pensare di salvarsi da soli, a portare a casa la pelle a discapito degli altri e nella peggiore delle ipotesi iniziare a parlare la lingua stessa del padrone. Perché anche dal più acerrimo schiavo può nascere un docile servo. Il servo Forse sarebbe meglio dire i servi, ne esistono tanti e di differenti gradazioni. Il servo più grande applica il calcolo del padrone, a volte severo a volte amichevole, in entrambi i casi punterà a spremere lo schiavo e a fargli fare ciò che vuole, che sia correre o andarsene. Il servo non dice mai la verità, ciò che pensa, e se lo dice ha lo stesso tono di quando mente. Il servo si smaschera solo nel momento del fastidio, quando il Capo inizia a perdere i soldi e vede la possibilità che gli faccia il culo! Il servo minore lavora a testa bassa, si lamenta tra i denti ma non morde mai, condivide i mali di molti schiavi ma non si ribella per scelta, spesso sperando di cavalcare l’onda quando la forza degli schiavi si romperà contro gli scogli dei Capi. Il servo dice di comprendere lo schiavo ma poi sussurra parole di scoraggiamento, che tanto è inutile fare qualsiasi cosa, che il Capo non ha i soldi per soddisfare le esigenze degli schiavi, che è meglio pensare a se stessi. Il servetto si giustifica quando gli schiavi iniziano a dare fastidio, si appella alla libertà di continuare a lavorare, al diritto di avere idee diverse ma in fondo sa che in quel momento si sta schierando, sta prendendo posizione e con la sua “libertà” sta di fatto osteggiando le possibilità di vita degli schiavi ribelli. Ma occhio a non cadere in errore, perché spesso un servo apparente è in realtà uno schiavo impaurito, ad esempio con una famiglia aggrappata a quel poco che ha da perdere. Infine per quanto si possa odiare un servo la vita è piena di sorprese, la lotta è una di queste e può regalare a un servo la voglia e la consapevolezza di diventare uno schiavo che inizia a ribellarsi, a patto di rompere evidentemente col suo passato e con la lingua dei padroni. Le amanti Le amanti lo fanno per passione, per amore, per solidarietà, per rafforzare se stesse, per odio verso tutti i Capi. Le amanti sono altri schiavi che si sono sollevati contro altrettanti padroni, sono persone che si battono contro svariate ingiustizie sociali, sono anime indomite che vorrebbero essere da stimolo per ogni schiavo sulla faccia della terra. Le amanti sono parenti, amici, compagne e compagni. Le amanti spesso e volentieri giungono a rafforzare le prime fasi della lotta, quando gli schiavi ribelli sono ancora pochi rispetto ai servi, quando serve un minimo numero per fare la differenza. Le amanti giungono in aiuto per mostrare una forza che sia in grado di incuriosire e spronare altri schiavi timorosi. Alcune amanti sanno muoversi anche senza gli schiavi, senza preavviso compaiono gridano la propria solidarietà agli schiavi in faccia ai Capi e agli sgherri dei potenti e poi scompaiono per tornare poi di nuovo tutti assieme. Le amanti non fanno calcoli, a volte se ne stanno in disparte a fare presenza altre volte si lanciano per prime forti delle loro precedenti esperienze, con al speranza di essere seguite e superate dagli schiavi ribelli, e lanciarsi e rilanciarsi le une sugli altri come la spuma dell’onda.    Le fiabe del terzo millennio si chiamano business model e quello di Domino’s parla chiaro, fin dai primi colloqui: se sei uno schiavo puoi diventare un grande servo e forse addirittura un Capo. Ma il mondo ci piazza dove ci piazza, per mille schiavi uno diventerà un facoltoso e diligente servo, tutti gli altri resteranno schiavi. Iniziare a lottare significa volere e agire in senso estremamente contrario a questa filastrocca, significa far cadere tutte le maschere, da quella dei Capi a quella degli schiavi stessi. Significa far parlare la propria pancia e non più la testa dei padroni, trovare il proprio modo per descrivere ciò che si vuole veramente. Ma occorre anche stare molto attenti, perché se la lotta si esaurisce ogni personaggio è pronto a indossare nuovamente la propria maschera e il nostro quadro dalle tinte forti torna a offuscarsi in mille sfumature di grigio.