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Gaza. Dichiarazione delle forze della resistenza palestinese
Dichiarazione delle forze della resistenza palestinese, ossia di tutte le componenti della resistenza,il falso racconto che a Gaza ci sono solo i combattenti di Hamas,la resistenza all’aggressione sionista e’ l’insieme di forze che combattono da decine di anni l’occupazione. “I fronti palestinesi osservano con profonda preoccupazione e totale mobilitazione popolare […] L'articolo Gaza. Dichiarazione delle forze della resistenza palestinese su Contropiano.
Suliman, Fatima e la tenace resistenza di Al Fashir in Darfur
“Una parte di Al Fashir ancora resiste” mi dice Suliman. Resiste ai Janjaweed (Forze di Supporto Rapido). Poi nel séguito della telefonata mi precisa che è solo il 25% della città ad essere ancora sotto il controllo delle Forze Armate Sudanesi e delle Forze congiunte. Il resto del Darfur è ormai tutto in mano -ahimé- ai Janjaweed: si tratta del 75% della stessa Al Fashir (capitale del Darfur settentrionale), e interamente delle quattro capitali delle corrispondenti altre regioni del Darfur: Nyala (capitale del Darfur meridionale, la città di Suliman, dove ancora si trova il fratello maestro di scuola che avendo fatto partire moglie e figli non aveva abbastanza soldi per mettersi in viaggio, alias in fuga, lui stesso); Zalingei (Darfur Centrale); El Geneina (Darfur Orientale, quello confinante col Ciad dove hanno riparato parenti di Suliman); El Daein (capitale del Darfur Orientale). Nei bei palazzi costruiti dagli inglesi rimasti in piedi in queste città si sono sistemati gli odiosi Janjaweed, assassini seriali mai sazi del sangue dei cittadini africani che abitano la loro terra e vivono nelle loro case. O forse dovrei dire “abitavano” e “vivevano”. Ma quel pezzetto di Al Fashir che resiste, ormai da 225 giorni, è un simbolo per tutto il Darfur. Chiedo se oltre a chi combatte ci sono dentro la città ancora cittadini che non sono riusciti ad andare via. E sì, qualche famiglia c’è, ma pochissime, rimaste intrappolate. Per il resto, gli abitanti di Al Fashir, così come quelli di tanti villaggi dei dintorni erano tutti confluiti nei grandi campi profughi allestiti fuori della città, di cui il più grande era Zanzan. Parlo al passato perché ora quel campo con il suo milione e mezzo di persone non c’è più: “Tutti morti o andati via”. Quando i Janjaweed sono entrati, dopo averlo a lungo assediato, hanno trovato tanti bambini morti perché senza più cibo né acqua e senza più genitori. “Zanzan finito” dice laconicamente il mio amico per telefono. Gli chiedo del Kordofan: sentivo giorni fa al radiogiornale che ci sono state migliaia di morti. Sì, me lo conferma: da circa 20 giorni il Kordofan (una regione a sud-ovest di Khartoum) è assediato in tante delle sue città, con morti a non finire. E Khartoum? “Adesso non c’è guerra” – dice – “però… non lo so”- aggiunge in tono mesto. In circa il 30% delle case della capitale sono stati trovati corpi di cittadini morti (gli abitanti delle case stesse). “Mia casa non c’è corpi… solo c’è un bagno chiuso”. Quindi inaccessibile e non si sa cosa ci sia dentro. Le testimonianze sono del suo vicino di casa che per fortuna è riuscito a salvarsi. “Tua figlia?” domando. E mi riferisco alla sua prima figlia (nata da un precedente matrimonio) che abita a Melit, città a nord di Al Fashir, sulla via per la Libia; mi dice che è lì con quattro figli e con lei c’è la cognata con tre figli. I mariti sono andati probabilmente in Ciad a cercare lavoro e questo nucleo di donne e bambini si trova circondato dalla guerra, senza strade per fuggire. La guerra fa anche questo: distrugge le strade oltreché le case: non puoi abitare e non puoi andartene. Il figlio Ahmed sta ad Anzari, a nord del Sudan: è tornato lì dove si era fermato mesi fa ed aveva lavorato come tecnico dei telefoni satellitari; è ritornato a fare quel lavoro lasciando Il Cairo (dove era andato a raggiungere i genitori) verificata l’impossibilità di lavorare nella capitale egiziana. Questo ragazzo ormai forse 28 enne, il “piccolo” di Suliman e Fatima, è un “acrobata dei tetti”: a Khartoum si era specializzato frequentando un corso ed era stato chiamato -fra l’altro- dall’Ambasciata Italiana per installare la parabola del satellitare sopra al loro palazzo. Chiedo a Suliman se essendo così giovane e pericolosamente appetibile per questi delinquenti combattenti non sia per lui rischioso trovarsi in territorio sudanese, ma Suliman mi dice che i Janjaweed non arrivano così a nord, non osano avvicinarsi all’Egitto, e anche se fra Anzari ed Assuan, nel sud dell’Egitto, ci sono comunque più di 500 Km si tratta però di chilometri di puro deserto. Questa è la vita di un giovane sudanese, brillante studente di ingegneria che ha dovuto fermarsi al terzo anno perché all’Università di Khartoum non c’è il biennio di ingegneria. Sognava di completare gli studi in un’Università italiana (avevamo puntato e contattato Perugia), ma il suo sogno è stato brutalmente interrotto. Mi chiedo quanti altri e altre siano nella stessa situazione. Probabilmente tutti e tutte – mi rispondo: la guerra è particolarmente crudele con i giovani; è crudele con il futuro. Finalmente chiedo notizie di loro due – lui e sua moglie Fatima: “E voi come state?” “Siamo … così.” mi risponde, con un tono di triste accettazione. Fatima per la sua malattia auto-immune (il Lupus) deve andare ogni 14 giorni in un ospedale (privato) a farsi fare due iniezioni. L’ospedale sta appena fuori dalla città, in una parte moderna e non collegata con la metro; devono prendere il taxi. La visita non è particolarmente cara, ma le due punture sì: sono 100 dollari da sborsare ogni 14 giorni. Per fortuna in questo periodo stanno ricevendo qualche supporto economico dalle due figlie – una dalla Germania e l’altra dagli Stati Uniti (speriamo non diventi vittima delle nuove ‘politiche migratorie’ di Trump, che altro non sono se non deportazioni di massa). Ecco cosa significa la mancanza di ‘Stato sociale’ – dico fra me e me pensando al “Lupus” da curare privatamente: i cittadini indigenti che non hanno aiuti e supporti da altre persone possono tranquillamente crepare. Ecco il tipo di Stato verso cui noi italiani stiamo pericolosamente tornando, mentre riempiamo gli arsenali a dismisura perché così ci chiedono le lobbies delle armi. Suliman ricorda la guerra che i Janjaweed (finanziati dall’allora governo di Al Bashir) avevano scatenato in Darfur agli inizi di questo millennio: diversamente da venti anni fa, quando ad essere attaccato era solo il Darfur, oggi la guerra è in tutto il Paese: dei 18 stati che compongono il Sudan, solo 6 non sono sotto il controllo delle Forze di Supporto Rapido (alias i Janjaweed)e sono controllati dal governo sudanese. Si tratta degli Stati del Nilo Azzurro, di Kassala, di Gedaref, dello Stato del Nord, dello Stato del Nilo e di quello del Mar Rosso. Nella capitale di quest’ultimo, Port Sudan, sono stati trasferiti tutti gli uffici amministrativi e le ambasciate fin da quando, a pochi mesi dall’inizio della guerra, il governo decise di lasciare Khartoum che era entrata da subito nel pieno delle battaglie. E a Port Sudan erano dovuti andare Suliman e Fatima quando, lasciato il campo profughi dell’Etiopia (racconti da far inorridire), avevano deciso di dirigersi verso l’Egitto: la “nuova capitale” sudanese era tappa d’obbligo per mettere in regola i passaporti. Una città dal clima pessimo: molto calda e umidissima, 50 gradi, anche la notte. “Port Sudan: un forno” ricorda Suliman, mentre “Darfur adesso non caldo: pioggia. Sempre buon clima in Darfur”. Quei tre mesi del caldo -mi spiega- sono mitigati dalla pioggia. E Al Cairo per quanto riguarda il clima? “Normale. 40-45 gradi, qualche giorno 35”. Ma non c’è umidità (nonostante la presenza del Nilo che -se ho capito bene- ha poca acqua lì alla foce); è un caldo secco. La TV egiziana non parla di questa gravissima guerra che è scoppiata ai propri confini e di cui lo stesso Egitto risente fortemente per la grande quantità di profughi arrivati e in arrivo. Si parla invece della Palestina, dell’assedio di Gaza (chissà se usano la parola “genocidio” o se sono pavidi come i nostri governanti). Nomino Meloni; lì per lì Suliman non capisce; gli ricordo che è la nostra Presidente del Consiglio. E lui, avendola a quel punto messa a fuoco: “Ah, quella signora che io non piace!”. Rido e aggiungo: “Anche io non piace”. Vuole poi che gli ricordi il nome del partito di questa signora e saputolo commenta: “Non è Sorelle. Fratelli”. La ‘sorella’ -non d’Italia, ma del mondo- arriva poco dopo da me al telefono: è Fatima che mi saluta avviando il nostro stringatissimo dialogo con un “Come stai?” perfettamente pronunciato. Brava Fatima, bravo Suliman, resistenti ad oltranza, come quel 25% di Al Fashir. Link agli articoli precedenti: https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-fatima-e-legitto-che-si-avvicina/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-da-un-port-sudan-di-tutti-matti-a-un-egitto-non-amato/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-finalmente-in-egitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/11/suliman-e-fatima-il-nilo-del-cairo-non-e-il-nilo-di-khartoum/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-i-janjaweed-fanno-tante-cose-non-bene/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-in-egitto-ma-ancora-invisibili/ https://www.pressenza.com/it/2025/01/la-mia-amica-fatima-che-resiste-come-al-fashir-in-darfur/ Francesca Cerocchi
Georges Ibrahim Abdallah liberato dopo quarant’anni di detenzione
La corte d’appello di Parigi, oggi giovedì 17 luglio, ha deciso a favore della liberazione di George Abdallah. Il militante libanese, condannato nel 1987 per un presunta “complicità in omicidi terroristici”, lascerà il carcere di Lannemezan (negli Alti Pirenei) e sarà espulso verso Beirut il 25 luglio. A 74 anni, […] L'articolo Georges Ibrahim Abdallah liberato dopo quarant’anni di detenzione su Contropiano.
Oltre la catastrofe: imparare da coloro che sopravvivono tenacemente
ABBIAMO BISOGNO DI IMPARARE FORME CONCRETE DI RESISTENZA ALL’OLOCAUSTO CAPITALISTA CHE OGGI EMERGONO DENTRO, CONTRO E OLTRE IL SUO PERIMETRO ASFISSIANTE. “LA COLLABORAZIONE NEI COMPITI CHE FAVORISCONO LE OPPORTUNITÀ DELLA SUSSISTENZA COLLETTIVA, COME COLTIVARE LA TERRA O COSTRUIRE CASE, È UN PROCESSO CHE POTENZIALMENTE TRASFORMA LA NECESSITÀ IN ETICA… – SCRIVE STAVROS STAVRIDES – GLI SFORZI DELLA SOPRAVVIVENZA COLLETTIVA FANNO EMERGERE FORME DI CONVIVENZA BASATE SULLA MUTUA DIPENDENZA…”. I MODI ATTRAVERSO I QUALI IN TUTTO IL MONDO DONNE E UOMINI LOTTANO OGNI GIORNO PER SOPRAVVIVERE POSSONO CREARE DEI SENTIERI VERSO L’EMANCIPAZIONE COLLETTIVA, ANCHE SE NON SIAMO ABITUATI A CONSIDERARE QUESTA PROSPETTIVA Foto tratta dalla pag. fb del Movimento dos Trabalhadores Sem Terra (MST) -------------------------------------------------------------------------------- L’unico motivo per cui quelli che lottano contro il capitalismo e il patriarcato scrivono, parlano e agiscono è per dimostrare che la catastrofe attuale non è inevitabile. Inoltre, per esprimere con le parole e sperimentare con fatti che dimostrano che un altro mondo è possibile, hanno bisogno di imparare dalle concrete resistenze all’olocausto capitalista che oggi emergono dentro, contro e oltre il suo perimetro asfissiante. Ma che significa veramente imparare? Imitare, adattarsi a modelli basati su generalizzazioni affrettate, utilizzare diciture tecniche o etiche che cercano di afferrare il significato delle azioni degli altri? Forse possiamo partire dal fatto che i segnali della catastrofe sono tanto imminenti che la maggior parte della gente li attendono senza esitare, a meno che si realizzino cambiamenti radicali. Il problema è che, per molti, questa consapevolezza alimenta una specie di edonismo pessimista: “consumiamo tutto ciò che è possibile”, “sfruttiamo tutto ciò che possiamo”, consoliamoci guardando come altri già vivono in questa catastrofe con la speranza di poterle sfuggire”. È cruciale imparare da quelli che hanno già sperimentato una catastrofe nei loro mondi e sono sopravvissuti. Come riuscirono i popoli colonizzati a mantenersi vivi dal punto di vista culturale, etico e letterario? Come riescono gli afroamericani – quelli che siamo abituati a descrivere come i discendenti degli schiavi, come se questa descrizione già non implicasse una naturalizzazione di un’identità brutalmente forzata – a manifestare nella pratica la propria volontà di continuare a essere differenti e liberi per conferire forma al loro proprio mondo? Abbiamo la necessità di connettere le resistenze al capitalismo con le espressioni collettive di una volontà tenace di sopravvivere. In molti, casi, questa volontà collettiva viene sottovalutata: parliamo di “mera sopravvivenza”. Tuttavia, questi atti portano con sé i germogli di una inventiva collettiva, necessaria per qualsiasi sforzo di emancipazione. La collaborazione nei compiti che favoriscono le opportunità della sussistenza collettiva – come coltivare la terra, pescare o costruire case – è un processo che potenzialmente trasforma la necessità in etica. E le ricreazioni rituali della collaborazione possono trasformarla in una sorgente di valori sociali e principi fondamentali. Solo per fare un esempio: il Mutirão in Brasile (parola con radici nella lingua tupí guaraní) è un processo di comune aiuto che si è sviluppato nelle zone rurali e che si basa sul lavoro comunitario. Fu recuperato dai movimenti delle persone senza terra e senza casa (MST e MTST) come una forma di cooperazione nella lotta che produce nuovi modelli di vita collettiva. Non è un caso che il Mutirão venga ritualizzato anche nelle rappresentazioni mistiche del MST, che sono atti che celebrano il cooperativismo e il potere della Madre Terra. Le diverse rappresentazioni mistiche corroborano un’etica di condivisione e una relazione di cura con la terra (Stavrides, 2024). -------------------------------------------------------------------------------- Foto di Luca Perino -------------------------------------------------------------------------------- Un’assemblea del movimento sudafricano Abhalali baseMjondolo (“Coloro che vivono nelle baracche”) -------------------------------------------------------------------------------- Nelle pratiche di condividere e della cooperazione, nelle quali la prima (condividere) è sia la condizione iniziale che il risultato della seconda, emerge una potenzialità di emancipazione: la creazione di relazioni sociali basate sulla fiducia e sul reciproco appoggio. Ma questa potenzialità deve essere realizzata, sviluppata e inventata attraverso la pratica. Possiamo usare il verbo “rendere comune (comunizar)” per descrivere i processi di cooperazione che comprendono diverse aree della vita sociale nelle quali si pone la questione dell’accesso equo e della distribuzione del potere, questione inevitabile oltre al come la ricerca della sopravvivenza collettiva affronti questa questione. Se la catastrofe smaschera le differenze spesso accuratamente nascoste, gli sforzi della sopravvivenza collettiva fanno emergere forme di convivenza basate sulla mutua dipendenza. Gli sforzi individuali, specialmente tra coloro che sono i più vulnerabili e ignorati (a meno che non li si consideri dall’esterno come inutili) si rivelano ogni volta più sterili. Gli sforzi della sopravvivenza devono adattarsi mediante tattiche collettive e le tattiche si sviluppano nella pratica. I modelli della pratica nascono nella intersezione delle traiettorie precostruite della riproduzione sociale. Forse in un contesto sociale gli atti si convertono unicamente in esempi delle regole predominanti? Magari possiamo riscoprire la potenzialità degli atti che apparentemente seguono le tipologie predominanti del comportamento se distinguiamo con attenzione tra il paradigma e il modello. Questa possibilità la suggerisce Giorgio Agamben: “… un paradigma implica un movimento che passa di singolarità in singolarità e, senza mai abbandonare la singolarità, trasforma ogni caso singolare in un esempio di una regola generale che non può mai enunciarsi a priori” (2009:22). Il modo dominante di una tale conoscenza è l’analogia e non necessariamente la generalizzazione. In altre parole, il paradigma non è semplicemente il mezzo per presentare e confermare una regola, bensì forse per iniziare una comparazione analogica. I monaci, dice Agamben, potrebbero prendere ad esempio la vita del fondatore dell’ordine al quale appartengono e vivere le proprie vite, uniche come la sua, in forma analoga. Non ci affretteremo a chiamare questa pratica imitazione: l’analogia presuppone la singolarità degli aspetti comparati. La base di una comparazione si costruisce senza che l’uno si integri nell’altro. La creazione di una regola di condotta monastica è, per Agamben, qualcosa di molto diverso dal paradigma della vita del fondatore dell’ordine. Il paradigma, come manifestazione di una regola, presuppone una peculiare sospensione della propria specificità del suo significato. La sua singolarità, in un certo senso, rimane tra parentesi (come quando utilizziamo la coniugazione del verbo “amare” per mostrare la regola della coniugazione di verbi simili). Un gesto paradossale, di fatto, perché si suppone che la regola si formi a partire da tutti i casi che contiene (tutti i verbi simili). E l’esempio è certamente uno di quelli. Agamben conclude: “Il caso paradigmatico si converte in ciò nel sospendere e, allo stesso tempo, nell’esprimere la sua appartenenza al gruppo, in modo che non sia mai possibile separare il suo modello dalla sua singolarità” (ibid. 31). Un modo per valutare l’importanza di questa osservazione è formularla in questa maniera: ogni regola contiene un insieme di singolarità (istanze) solo perché identifica un elemento comune per tutte. Pertanto, è un errore ridurre l’unicità dei casi a una regola. L’unicità si capisce perché è l’intersezione di differenti regole. Così, di fronte al falso dilemma per il quale “le azioni delle persone sono tutte uniche” e “le azioni sono plasmate sulla base di schemi dominanti”, possiamo rispondere: in ogni singola azione si intrecciano regole che plasmano le pratiche (sequenze di atti) nell’applicare determinati schemi. In questo senso, ogni azione è un esempio. -------------------------------------------------------------------------------- I bambini e le bambine del Palestine Youth Club di Shatila al Centro storico Lebowski di Firenze (luglio 2025): foto di Chiara Benelli (che ringraziamo) per Un ponte per -------------------------------------------------------------------------------- In maniera analoga, possiamo parlare del controesempio. Un atto differente o un insieme di pratiche differenti possono considerarsi controesempi se li paragoniamo a una norma alla quale si contrappongono. Non come un’eccezione: l’eccezione appartiene alla regola. Si trova all’interno di essa come un verbo “irregolare” appartiene alla coniugazione dei verbi che si assomigliano nel non seguirlo. Agamben ha ragione quando insiste nel dire che l’eccezione non sta al di fuori della regola, bensì ne è solo la sua sospensione. Per questo, le eccezioni rilevano gli elementi costitutivi della regola dalla quale si separa ogni eccezione particolare. Il detto popolare che recita che l’eccezione conferma la regola sembra rivelare più di quanto appare in un primo momento. Le imprese eccezionali possono essere (viste) come atti eroici che sfidano esplicitamente le norme imposte. Sono (atti) necessari e utili per esporre la norma alla quale si contrappongono. Tuttavia, la loro forza diminuisce quando si trovano limitati a un confronto specifico con una norma specifica. I controesempi forse possono evitare questo trabocchetto, dato che possono arrivare più in là di un confronto specifico con la norma specifica di cui servono come esempio. Come succede di solito con gli esempi, possiedono le caratteristiche unica della loro specificità. Pertanto, possono trasformarsi in incroci di possibili pratiche, invece che in punti di rottura di una norma specifica. Le pratiche quotidiane possono essere portatrici di controesempi. Non dovrebbero descriversi semplicemente come non eccezioni, affermazioni di regole dominanti o espressioni di sottomissione reticente ma accettata. Questa è una delle maniere di ribadire che la riproduzione sociale è un campo di battaglia, più che una condizione stabilita con forza. Per questo, le tattiche di sopravvivenza quotidiana, specialmente di coloro che sono esposti ai pericoli immediati della catastrofe generata dal capitalismo, possono creare dei sentieri verso l’emancipazione collettiva, anche se una tale prospettiva non è necessariamente integrata in queste tattiche. Non è necessario che atti divergenti o dissidenti siano coscientemente proiettati da quelli che li realizzano in qualità di controesempi. La loro forza risiede nel fatto che offrono le opportunità per sperimentare mondi sociali organizzati in modo diverso. In questi mondi, attraverso gli atti, ma anche grazie al loro significato, si sviluppano controesempi. Considerare questi atti come modelli di sforzi emancipatori risulta utile per costruire delle teorie di emancipazione sociale, però forse trascura qualcosa di molto importante: il ragionamento analogico che permette alla teoria di mettere a confronto una molteplicità di casi senza ridurli a una regola generale. In altre parole, l’emancipazione sociale viene esplorata da persone reali in circostanze specifiche, e pertanto può adottare forme differenti. Nel rispettare il carattere distintivo e particolare di ogni pratica realizzata, abbiamo quindi la necessità di considerare l’emancipazione sociale come il trionfo dell’inventiva collettiva. Solo gli artigiani capaci e dotati di inventiva possono emancipare sé stessi. -------------------------------------------------------------------------------- Stavros Stavrides è professore alla Scuola di Architettura dell’Università Tecnica Nazionale di Atene, si occupa di reti urbani di solidarietà e mutuo sostegno. Nell’archivio di Comune, altri suoi articoli sono leggibili qui. Pubblicato sul numero 3 della Revista Crítica Anticapitalista (intitolato Crítica Anticapitalista 3 – La Tormenta, la castástrofe… ¿Y ahora qué?) di Comunizar, non-collettivo argentino fratello di Comune. Traduzione di Massimo Zincone. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Oltre la catastrofe: imparare da coloro che sopravvivono tenacemente proviene da Comune-info.
Donne resistenti. La prima stella della sera, rassegna teatrale di Atir-Teatro ringhiera
È stata una bellissima serata quella trascorsa il 5 luglio al festival organizzato da Atir-Teatro ringhiera nel cortile della Chiesa di Santa Maria alla Fonte nel Parco Chiesa Rossa di Milano. In programma c’era la lettura di alcun brani tratti dal libro di Benedetta Tobagi La Resistenza delle donne, pubblicato da Einaudi nel 2022. La lettura è stata preceduta dall’intervento di tre donne appartenenti al gruppo informale di Milano “Silenzio per la pace” che dal marzo 2023 (poco dopo l’inizio della guerra fra Russia e Ucraina) si raduna ogni giovedì pomeriggio in via Mercanti, in pieno centro, a manifestare col silenzio il proprio desiderio di pace. Poi, fra parole a volte drammatiche a volte divertenti, alternando racconti di cronaca (Benedetta Tobagi) e testimonianze dirette delle ”resistenti” interpretate da Arianna Scommegna, quasi sempre nelle varie inflessioni dei dialetti piemontesi, si è svolta la preannunciata performance. La particolarità della Resistenza delle donne, ci spiega Benedetta Tobagi, è data dalla completa volontarietà della loro decisione: non vi si sentirono costrette per sfuggire all’arruolamento nell’esercito dei repubblichini di Salò o in quello nazista, ma lo fecero per scelta personale, a volte considerandola addirittura liberatoria per sganciarsi dalle costrizioni, dai lacci dei rigidi, soffocanti legami familiari. Questa scelta è andata perciò a far parte del lungo percorso sulla strada dell’emancipazione femminile, con i suoi progressi e i suoi arretramenti. Dopo questa commovente e appassionata lettura-interpretazione, era prevista la proiezione di No Other Land, l’ormai famoso documentario girato in uno dei villaggi del complesso di Masafer Yatta, nei Territori palestinesi occupati da Israele. Prima della proiezione erano previste due “cartoline” come le hanno chiamate le esponenti di Atir, ovvero brevi presentazioni del film elaborate da una scrittrice italo-palestinese, Sarah Mustafa, e da me, Susanna Sinigaglia, in rappresentanza della rete Maiindifferenti – Voci ebraiche per la pace. L’incontro era condotto da Pilar Perez, un’attrice di Atir, che ci ha rivolto alcune domande in relazione al nostro ruolo e al nostro sentire nei confronti degli eventi a Gaza e in West Bank, e in relazione al film. A me in particolare Pilar ha chiesto: ma dov’è andata a finire l’etica del governo israeliano? Questa domanda mi ha lasciato alquanto perplessa, dato che da tempo se ne sono perse le tracce… Così le ho risposto citando la nascita della nostra rete proprio per reazione a questa lunga mancanza, col primo appello pubblicato nel febbraio 2024 sulla base di un interrogativo intorno alla ricorrenza della Giornata della memoria: “A che cosa serve oggi la memoria della Shoà se non aiuta a fermare la produzione di morte in Palestina e, anzi, serve da alibi per giustificare le politiche del governo israeliano?” Pilar in seguito mi ha anche chiesto quali siano i nostri rapporti con i gruppi della resistenza israeliana e con la Comunità ebraica in Italia, quali le nostre iniziative. Ho citato in particolare l’ultima – all’Anteo –, insieme a L3a – Laboratorio ebraico antirazzista, con la proiezione di No Other Land preceduta da un incontro con varie figure del mondo ebraico e palestinese in Italia, alle quali abbiamo chiesto un commento su 5 brevi clip che mostrano alcuni momenti/passaggi significativi del film: 1. il calore umano degli abitanti del villaggio; 2. la violenza delle distruzioni operate dall’esercito e dai coloni israeliani; 3. l’impazienza dell’israeliano (il regista e interprete Yuval Abraham), frutto tipico dell’attuale civiltà occidentale, e la perseveranza del palestinese (il regista e interprete Basel Adra), abituato a resistere fin da bambino e ad allungare lo sguardo dal contingente a un futuro possibile. Per ulteriori informazioni sulle nostre iniziative, rimandiamo i lettori al sito www.maiindifferenti.it e alla pagina Facebook. A Sarah, Pilar ha domandato quale futuro sarà possibile per i bambini palestinesi che sopravvivranno. E Sarah ha semplicemente risposto proponendo al pubblico un paragone fra i traumi provati dai nostri piccoli, per i quali ci rivolgiamo allo psicologo, e quelli inimmaginabili subiti dai bambini palestinesi. Naturalmente la domanda è rimasta senza risposta. Sarah ha poi espresso la propria angoscia, guardando il film, nel vedere quanta violenza venga dispiegata contro il suo popolo ma anche l’apprezzamento per il coraggio dimostrato dagli abitanti del villaggio, per la loro resistenza. Inoltre ritiene che sia un documentario importante perché mostra al mondo che cosa succedesse in Palestina molto prima del fatidico 7 ottobre 2023. Quando, per esempio nel 2009, Tony Blair – come inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente formato da Onu, Stati Uniti, Unione Europea e Russia – in soli sette minuti di passeggiata nel villaggio, con giornalisti e televisioni internazionali al seguito, aveva ottenuto ciò che la resistenza non violenta dei palestinesi tentava da anni: bloccare la demolizione della scuola che purtroppo, come vedremo, avverrà invece nel corso delle riprese del film. Questo episodio è significativo di quanto l’assenza dell’Europa e di testimoni occidentali potenti lasci mano libera al governo israeliano… D’altra parte secondo Sarah, il docufilm lascia anche aperto uno spiraglio alla speranza di dialogo, che però ritiene possa avvenire solo ad alcune condizioni: il riconoscimento del dolore dell’altro, la fine dell’occupazione affinché il dialogo possa svolgersi alla pari, la garanzia dei diritti umani fondamentali come quello alla vita, all’istruzione, all’acqua; e ponendo un argine ben solido ai vari estremismi. Dopo i nostri interventi, abbiamo lasciato il pubblico alla proiezione del film mentre Sarah, io e le nostre ospiti abbiamo concluso l’incontro davanti a un panino, una birra e ancora tante considerazioni sugli eventi che agitano il nostro presente.   La Bottega del Barbieri
Iraq: prossima tappa del “riassetto sionista” del Medio Oriente?
Dopo l’ultima aggressione armata all’Iran, conclusasi con una rapida tregua dopo aver decapitato i più alti e validi esponenti militari e scientifici del paese, molti analisti militari arabi e internazionali, focalizzano nell’Iraq, la prossima mossa di Israele, in quanto, quello iracheno “è l’ultimo fronte rimasto”, al momento non coinvolto degli […] L'articolo Iraq: prossima tappa del “riassetto sionista” del Medio Oriente? su Contropiano.
“Risalire la Storia”: Un’Iniziativa per il Biellese, Tra Memoria e Futuro
da Circolo Tavo Burat “Risalire la Storia” è un’iniziativa per portare attenzione sulle aree montane del Biellese. Si svolgerà alla Trappa di Sordevolo, luogo di esperienze, di idee e pratiche concrete per la rigenerazione delle aree interne. Sarà un laboratorio residenziale, si terrà dal 31 agosto al 7 settembre ed è promosso, oltre che dall’Ecomuseo della Valle Elvo e della Serra, anche dal Circolo Tavo Burat di Biella e dalla Casa della Resistenza di Sala Biellese, con il supporto della Fondazione Cassa di Risparmio di Biella. L’obiettivo è sviluppare un modello replicabile per lo sviluppo sostenibile montano. L’iniziativa “Risalire la Storia” è concepita come un’edizione pilota, mirata a gettare le basi per un’attività continuativa. I suoi scopi sono duplici: attrarre le nuove generazioni e valorizzare il patrimonio culturale e paesaggistico per contrastare il fenomeno dello spopolamento. Per comprendere appieno questa iniziativa, è utile considerare il concetto di convivialità di Ivan Illich. Illich sosteneva la necessità di strumenti e sistemi che favoriscano l’autonomia personale e la cooperazione sociale, anziché promuovere la dipendenza da istituzioni o tecnologie complesse e spesso inaccessibili. “Risalire la Storia” si allinea a questa visione, proponendo un ritorno alla montagna non solo come luogo fisico, ma come uno spazio dove è possibile ristabilire un equilibrio tra l’uomo e l’ambiente. Ciò avviene attraverso il recupero di economie circolari tradizionali e la creazione di ambienti produttivi che siano sostenibili e accessibili, promuovendo una maggiore autonomia delle comunità locali. Il programma si articola su più fronti, offrendo spunti di riflessione e opportunità pratiche: * Seminario “Metromontagna”: In collaborazione con “Riabitare l’Italia” e con la partecipazione di Filippo Barbera, docente di sociologia all’Università di Torino, si esplorerà un nuovo equilibrio tra aree urbane e montane. Il Professor Barbera è riconosciuto per le sue ricerche sulle disuguaglianze sociali e territoriali, sulle politiche dello sviluppo locale e, in particolare, sul tema del riabitare le aree interne. La sua prospettiva, focalizzata sulla riorganizzazione dei rapporti tra centri e periferie, sarà utile per analizzare la necessità di riequilibrare i flussi di risorse tra città, campagna e montagna. * Esperienza Residenziale: I partecipanti saranno coinvolti attivamente nella realtà della Trappa di Sordevolo, prendendo parte alla cura del paesaggio e allo sviluppo di pratiche sostenibili. * Rilettura della Resistenza: Verrà proposto un percorso di approfondimento sulla Resistenza in Valle Elvo e sulla Serra, per preservare e condividere la memoria locale. Questo aspetto si lega al pensiero e all’azione di Gustavo “Tavo” Burat, che ha dedicato molto del suo impegno alla difesa della memoria storica, considerandola un fondamento per la libertà e l’autonomia. * Confronto con le Eresie Montanare: In collaborazione con il Centro Studi Dolciniani e gli attori di Storie di Piazza, si rifletterà sulle diverse forme di resistenza che hanno radici profonde nella storia della montagna. Queste “eresie” sono intese come espressioni di autonomia e ricerca di modelli di vita alternativi, un tema che era caro a Tavo Burat. Burat evidenziava come le comunità montane abbiano mantenuto nel tempo una propria identità e una capacità di resistere alle omologazioni, incarnando valori di autodeterminazione e rispetto per il territorio. Il progetto si distingue per la sua originalità, combinando il tema del riabitare la montagna con la storia della Resistenza e le resistenze degli eretici. L’obiettivo è quello di una fruizione dei luoghi che vada oltre la chiave turistica, intraprendendo un percorso partecipato di riconoscimento e comprensione del patrimonio territoriale e delle sue potenzialità. La sostenibilità ambientale è un aspetto centrale e si integra con l’idea di convivialità. “Riabitare territori marginalizzati significa ristabilire un equilibrio tra uomo e ambiente, recuperando economie circolari tradizionali e creando ambienti produttivi sostenibili”, si legge nel testo del progetto sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Biella. “Risalire la Storia” vuole essere un chiaro segnale dell’impegno del Biellese a investire nel proprio futuro, puntando sui giovani e sulla valorizzazione del territorio. Per informazioni coordinatore@ecomuseo.it – 349 3269048 (anche WhatsApp) Redazione Piemonte Orientale
Una Resistenza non banale per decine di migliaia di giovani
In occasione dell’ottantesimo anniversario della Liberazione e per cominciare ad affrontare i temi del dialogo dal titolo "Ottant’anni dopo", che si terrà venerdì 25 luglio al SIMposio (programma e iscrizioni qui), abbiamo chiesto ad Andrea Tappi - uno dei dialoganti insieme a Luca Baldissara, Mirco Carrattieri, Chiara Colombini e  Santo Peli - cosa pensa in particolare della trattazione della Resistenza a scuola oggi. L'articolo Una Resistenza non banale per decine di migliaia di giovani sembra essere il primo su StorieInMovimento.org.
Dongo 27 aprile/ Il vento fischia ancora
Nella testimonianza e nelle foto dello sconvolgente reportage di Alle Bonicalzi sulla manifestazione fascista del 27 aprile e sul presidio democratico di Anpi, Arci, forze politiche e sindacati in piazza Paracchini, l’evidenza del reato di apologia del fascismo, il contrasto tra l’apparente innocenza delle rose e la volontà assassina delle libertà e della storia che le ha lasciate sulla ringhiera, l’imbarazzante ruolo delle forze dell’ordine impegnate a blindare la democrazia e lasciare liberi i fascisti di delinquere oltraggiando la Costituzione. Ma anche la forza e gioia di tant3 per essere partigian3 della libertà. Questa mattina mi sono alzata e ho scoperto tracce molto chiare della necessità d’essere partigian3 e antifascist3, oggi come e più di ieri. Trovarmi faccia a faccia con il manipolo di ‘persone che salutano’ in memoria dei fatti del 1945, mi ha colpito davvero molto, soprattutto rispetto al contesto: il mondo all’incontrario! Dall’altro lato della piazza, una contromanifestazione nonviolenta circondata e arginata dalla polizia in assetto antisommossa, che dirige perfino il traffico per favorire ‘l’evento’; di là, su un lungolago rannuvolato come e più di me, una coorte schierata che offre romanamente il braccio destro al cielo come se fosse costituzionalmente possibile.  Allucinante. In senso letterale, dico. Deve per forza essere un abbaglio, una svista e, quindi, un errore! Come altrimenti spiegare (e lo dovremo spiegare!) questo rigurgito di un passato decisamente nero che annualmente si ripropone come solo un cibo davvero indigesto sa fare? Come assicurarci d’essere ancora in una democrazia fondata sul ripudio della guerra e, quindi, della violenza e della prevaricazione? Come costruire un domani che sia splendente di libertà, accoglienza, giustizia e, quindi, pace? Io oggi son rimasta senza parole. Un po’ parlano le immagini. Ma intanto io mi appunto nel pensiero una certezza: ora e sempre Resistenza. Perché la libertà non è mai data una volta per tutte. Va esercitata, nel duplice senso di allenata e agita! E la democrazia va protetta, anche da se stessa. Ora. E sempre. Resistenza. Guarda i video della manifestazione democratica e della presenza fascista. Guarda la galleria di foto di Alle Bonicalzi Ecoinformazioni
“Ecco, questa è una cosa con cui non sono placato”
Torniamo ad occuparci delle nuove indicazioni ministeriali per l’insegnamento della storia a scuola con una intervista ad Andrea Tappi, co-autore - insieme a Javier Tébar Hurtado - de "La Resistenza e la Transizione spagnola a scuola" (Carocci, 2025) L'articolo “Ecco, questa è una cosa con cui non sono placato” sembra essere il primo su StorieInMovimento.org.