Oltre la catastrofe: imparare da coloro che sopravvivono tenacementeABBIAMO BISOGNO DI IMPARARE FORME CONCRETE DI RESISTENZA ALL’OLOCAUSTO
CAPITALISTA CHE OGGI EMERGONO DENTRO, CONTRO E OLTRE IL SUO PERIMETRO
ASFISSIANTE. “LA COLLABORAZIONE NEI COMPITI CHE FAVORISCONO LE OPPORTUNITÀ DELLA
SUSSISTENZA COLLETTIVA, COME COLTIVARE LA TERRA O COSTRUIRE CASE, È UN PROCESSO
CHE POTENZIALMENTE TRASFORMA LA NECESSITÀ IN ETICA… – SCRIVE STAVROS STAVRIDES –
GLI SFORZI DELLA SOPRAVVIVENZA COLLETTIVA FANNO EMERGERE FORME DI CONVIVENZA
BASATE SULLA MUTUA DIPENDENZA…”. I MODI ATTRAVERSO I QUALI IN TUTTO IL MONDO
DONNE E UOMINI LOTTANO OGNI GIORNO PER SOPRAVVIVERE POSSONO CREARE DEI SENTIERI
VERSO L’EMANCIPAZIONE COLLETTIVA, ANCHE SE NON SIAMO ABITUATI A CONSIDERARE
QUESTA PROSPETTIVA
Foto tratta dalla pag. fb del Movimento dos Trabalhadores Sem Terra (MST)
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L’unico motivo per cui quelli che lottano contro il capitalismo e il patriarcato
scrivono, parlano e agiscono è per dimostrare che la catastrofe attuale non è
inevitabile. Inoltre, per esprimere con le parole e sperimentare con fatti che
dimostrano che un altro mondo è possibile, hanno bisogno di imparare dalle
concrete resistenze all’olocausto capitalista che oggi emergono dentro, contro e
oltre il suo perimetro asfissiante.
Ma che significa veramente imparare? Imitare, adattarsi a modelli basati su
generalizzazioni affrettate, utilizzare diciture tecniche o etiche che cercano
di afferrare il significato delle azioni degli altri?
Forse possiamo partire dal fatto che i segnali della catastrofe sono tanto
imminenti che la maggior parte della gente li attendono senza esitare, a meno
che si realizzino cambiamenti radicali. Il problema è che, per molti, questa
consapevolezza alimenta una specie di edonismo pessimista: “consumiamo tutto ciò
che è possibile”, “sfruttiamo tutto ciò che possiamo”, consoliamoci guardando
come altri già vivono in questa catastrofe con la speranza di poterle sfuggire”.
È cruciale imparare da quelli che hanno già sperimentato una catastrofe nei loro
mondi e sono sopravvissuti. Come riuscirono i popoli colonizzati a mantenersi
vivi dal punto di vista culturale, etico e letterario? Come riescono gli
afroamericani – quelli che siamo abituati a descrivere come i discendenti degli
schiavi, come se questa descrizione già non implicasse una naturalizzazione di
un’identità brutalmente forzata – a manifestare nella pratica la propria volontà
di continuare a essere differenti e liberi per conferire forma al loro proprio
mondo?
Abbiamo la necessità di connettere le resistenze al capitalismo con le
espressioni collettive di una volontà tenace di sopravvivere. In molti, casi,
questa volontà collettiva viene sottovalutata: parliamo di “mera sopravvivenza”.
Tuttavia, questi atti portano con sé i germogli di una inventiva collettiva,
necessaria per qualsiasi sforzo di emancipazione. La collaborazione nei compiti
che favoriscono le opportunità della sussistenza collettiva – come coltivare la
terra, pescare o costruire case – è un processo che potenzialmente trasforma la
necessità in etica. E le ricreazioni rituali della collaborazione possono
trasformarla in una sorgente di valori sociali e principi fondamentali. Solo per
fare un esempio: il Mutirão in Brasile (parola con radici nella lingua tupí
guaraní) è un processo di comune aiuto che si è sviluppato nelle zone rurali e
che si basa sul lavoro comunitario. Fu recuperato dai movimenti delle persone
senza terra e senza casa (MST e MTST) come una forma di cooperazione nella lotta
che produce nuovi modelli di vita collettiva. Non è un caso che il Mutirão venga
ritualizzato anche nelle rappresentazioni mistiche del MST, che sono atti che
celebrano il cooperativismo e il potere della Madre Terra. Le diverse
rappresentazioni mistiche corroborano un’etica di condivisione e una relazione
di cura con la terra (Stavrides, 2024).
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Foto di Luca Perino
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Un’assemblea del movimento sudafricano Abhalali baseMjondolo (“Coloro che vivono
nelle baracche”)
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Nelle pratiche di condividere e della cooperazione, nelle quali la prima
(condividere) è sia la condizione iniziale che il risultato della seconda,
emerge una potenzialità di emancipazione: la creazione di relazioni sociali
basate sulla fiducia e sul reciproco appoggio. Ma questa potenzialità deve
essere realizzata, sviluppata e inventata attraverso la pratica. Possiamo usare
il verbo “rendere comune (comunizar)” per descrivere i processi di cooperazione
che comprendono diverse aree della vita sociale nelle quali si pone la questione
dell’accesso equo e della distribuzione del potere, questione inevitabile oltre
al come la ricerca della sopravvivenza collettiva affronti questa questione. Se
la catastrofe smaschera le differenze spesso accuratamente nascoste, gli sforzi
della sopravvivenza collettiva fanno emergere forme di convivenza basate sulla
mutua dipendenza. Gli sforzi individuali, specialmente tra coloro che sono i più
vulnerabili e ignorati (a meno che non li si consideri dall’esterno come
inutili) si rivelano ogni volta più sterili.
Gli sforzi della sopravvivenza devono adattarsi mediante tattiche collettive e
le tattiche si sviluppano nella pratica. I modelli della pratica nascono nella
intersezione delle traiettorie precostruite della riproduzione sociale. Forse in
un contesto sociale gli atti si convertono unicamente in esempi delle regole
predominanti? Magari possiamo riscoprire la potenzialità degli atti che
apparentemente seguono le tipologie predominanti del comportamento se
distinguiamo con attenzione tra il paradigma e il modello. Questa possibilità la
suggerisce Giorgio Agamben:
“… un paradigma implica un movimento che passa di singolarità in singolarità e,
senza mai abbandonare la singolarità, trasforma ogni caso singolare in un
esempio di una regola generale che non può mai enunciarsi a priori” (2009:22).
Il modo dominante di una tale conoscenza è l’analogia e non necessariamente la
generalizzazione. In altre parole, il paradigma non è semplicemente il mezzo per
presentare e confermare una regola, bensì forse per iniziare una comparazione
analogica. I monaci, dice Agamben, potrebbero prendere ad esempio la vita del
fondatore dell’ordine al quale appartengono e vivere le proprie vite, uniche
come la sua, in forma analoga. Non ci affretteremo a chiamare questa pratica
imitazione: l’analogia presuppone la singolarità degli aspetti comparati. La
base di una comparazione si costruisce senza che l’uno si integri nell’altro.
La creazione di una regola di condotta monastica è, per Agamben, qualcosa di
molto diverso dal paradigma della vita del fondatore dell’ordine. Il paradigma,
come manifestazione di una regola, presuppone una peculiare sospensione della
propria specificità del suo significato. La sua singolarità, in un certo senso,
rimane tra parentesi (come quando utilizziamo la coniugazione del verbo “amare”
per mostrare la regola della coniugazione di verbi simili). Un gesto
paradossale, di fatto, perché si suppone che la regola si formi a partire da
tutti i casi che contiene (tutti i verbi simili). E l’esempio è certamente uno
di quelli. Agamben conclude:
“Il caso paradigmatico si converte in ciò nel sospendere e, allo stesso tempo,
nell’esprimere la sua appartenenza al gruppo, in modo che non sia mai possibile
separare il suo modello dalla sua singolarità” (ibid. 31).
Un modo per valutare l’importanza di questa osservazione è formularla in questa
maniera: ogni regola contiene un insieme di singolarità (istanze) solo perché
identifica un elemento comune per tutte. Pertanto, è un errore ridurre l’unicità
dei casi a una regola. L’unicità si capisce perché è l’intersezione di
differenti regole. Così, di fronte al falso dilemma per il quale “le azioni
delle persone sono tutte uniche” e “le azioni sono plasmate sulla base di schemi
dominanti”, possiamo rispondere: in ogni singola azione si intrecciano regole
che plasmano le pratiche (sequenze di atti) nell’applicare determinati schemi.
In questo senso, ogni azione è un esempio.
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I bambini e le bambine del Palestine Youth Club di Shatila al Centro storico
Lebowski di Firenze (luglio 2025): foto di Chiara Benelli (che ringraziamo) per
Un ponte per
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In maniera analoga, possiamo parlare del controesempio. Un atto differente o un
insieme di pratiche differenti possono considerarsi controesempi se li
paragoniamo a una norma alla quale si contrappongono. Non come un’eccezione:
l’eccezione appartiene alla regola. Si trova all’interno di essa come un verbo
“irregolare” appartiene alla coniugazione dei verbi che si assomigliano nel non
seguirlo. Agamben ha ragione quando insiste nel dire che l’eccezione non sta al
di fuori della regola, bensì ne è solo la sua sospensione. Per questo, le
eccezioni rilevano gli elementi costitutivi della regola dalla quale si separa
ogni eccezione particolare. Il detto popolare che recita che l’eccezione
conferma la regola sembra rivelare più di quanto appare in un primo momento.
Le imprese eccezionali possono essere (viste) come atti eroici che sfidano
esplicitamente le norme imposte. Sono (atti) necessari e utili per esporre la
norma alla quale si contrappongono. Tuttavia, la loro forza diminuisce quando si
trovano limitati a un confronto specifico con una norma specifica. I
controesempi forse possono evitare questo trabocchetto, dato che possono
arrivare più in là di un confronto specifico con la norma specifica di cui
servono come esempio. Come succede di solito con gli esempi, possiedono le
caratteristiche unica della loro specificità. Pertanto, possono trasformarsi in
incroci di possibili pratiche, invece che in punti di rottura di una norma
specifica.
Le pratiche quotidiane possono essere portatrici di controesempi. Non dovrebbero
descriversi semplicemente come non eccezioni, affermazioni di regole dominanti o
espressioni di sottomissione reticente ma accettata. Questa è una delle maniere
di ribadire che la riproduzione sociale è un campo di battaglia, più che una
condizione stabilita con forza. Per questo, le tattiche di sopravvivenza
quotidiana, specialmente di coloro che sono esposti ai pericoli immediati della
catastrofe generata dal capitalismo, possono creare dei sentieri verso
l’emancipazione collettiva, anche se una tale prospettiva non è necessariamente
integrata in queste tattiche.
Non è necessario che atti divergenti o dissidenti siano coscientemente
proiettati da quelli che li realizzano in qualità di controesempi. La loro forza
risiede nel fatto che offrono le opportunità per sperimentare mondi sociali
organizzati in modo diverso. In questi mondi, attraverso gli atti, ma anche
grazie al loro significato, si sviluppano controesempi. Considerare questi atti
come modelli di sforzi emancipatori risulta utile per costruire delle teorie di
emancipazione sociale, però forse trascura qualcosa di molto importante: il
ragionamento analogico che permette alla teoria di mettere a confronto una
molteplicità di casi senza ridurli a una regola generale. In altre parole,
l’emancipazione sociale viene esplorata da persone reali in circostanze
specifiche, e pertanto può adottare forme differenti. Nel rispettare il
carattere distintivo e particolare di ogni pratica realizzata, abbiamo quindi la
necessità di considerare l’emancipazione sociale come il trionfo dell’inventiva
collettiva. Solo gli artigiani capaci e dotati di inventiva possono emancipare
sé stessi.
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Stavros Stavrides è professore alla Scuola di Architettura dell’Università
Tecnica Nazionale di Atene, si occupa di reti urbani di solidarietà e mutuo
sostegno. Nell’archivio di Comune, altri suoi articoli sono leggibili qui.
Pubblicato sul numero 3 della Revista Crítica Anticapitalista (intitolato
Crítica Anticapitalista 3 – La Tormenta, la castástrofe… ¿Y ahora qué?) di
Comunizar, non-collettivo argentino fratello di Comune.
Traduzione di Massimo Zincone.
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> Gridare, fare e pensare mondi nuovi
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